Libero, 9 settembre 2024
Quando Eleonora Duse folgorò Charlie Chaplin
Era ottobre, correva il 1923 e la Divina si impelagava, nel senso etimologico di solcare il pelago, nei mari atlantici con un piroscafo diretto a New York, primo scalo di una tournée che l’avrebbe riportata, dopo un bel po’, in quella America che già a suo tempo era rimasta a bocca aperta di fronte al suo incomparabile talento. Portava con sé, nell’avventura transoceanica, il bagaglio di una vita che si può ben definire, mutuando la lingua del popolo ospitante, larger than life: così gravida, l’esistenza di Eleonora Duse, di emozioni e di vicissitudini, che non la puoi contenere nel recinto di una vita soltanto.
Fu un trionfo tale, quella tournée, che nulla di simile si era mai visto prima a quelle latitudini della Terra, nemmeno con la sua eterna duellatrice Sarah Bernhardt. Giusto la morte poteva fermarla e la morte sopraggiunse, in quel di Pittsburgh, il 21 aprile 1924.
Il centenario della sua scomparsa è un’occasione che consente di rimarcare la meravigliosa inattualità della festeggiata: la profondità con cui viveva il mestiere, scandagliando il terreno della propria coscienza, è agli antipodi rispetto alla grettezza dei tempi nostri coevi.
Lo studioso Marcello Gallucci, nel volume Eleanora. Come Chaplin ricreò la Duse. Rêverie su un mazzo di fiori ( Jaca Book Edizioni, pp. 176, euro 16), sofferma l’attenzione sulle reazioni delle menti più brillanti d’oltreoceano dinante all’epifania della più grande di tutte.
L’autore raccoglie recensioni a botta calda e riflessioni a posteriori di addetti ai lavori, tra cui Lee Strasberg, sul fenomeno “Eleanora” (come da grafia anglosassone). I critici non furono teneri nel giudicare gli allestimenti nel complesso, ma Duse era Duse, e anche chi era avvezzo a intingere il calamaio nel veleno, non poteva che avere contezza del «tremito e della schiettezza del suo recitare», della sua «tragica bellezza», della differenza intercorrente tra chi si sforzava di essere naturalista e chi, come lei, era «natura» nella sua quintessenza.
Poi c’è Charlie Chaplin, che vide Duse a Los Angeles nel dramma La porta chiusa e la volle raccontare, con una prosa adamantina che andava a sommarsi ai meriti acclarati come cineasta, prima in un articolo scritto appena dopo lo spettacolo, poi nella sua Autobiografia, nel ’64.
Era rimasto colpito da questa donna che aveva l’«anima semplice e diretta della bambina» e nel contempo «il cervello analitico e incisivo della psicologa». Una scena nello specifico, dove l’attrice carezzava dei fiori e poi, sedendosi, guardava il fuoco del camino emettendo una voce che «proveniva dalle braci della passione tragica», gli aveva trafitto il cuore oltremisura.
Curiosamente però, nel rimemorare tanti anni dopo quelle rose bianche lambite da Duse, nella sua mente esse divenivano… crisantemi del medesimo colore.
Era impensabile che una compagnia teatrale, perdipiù italiana, maneggiasse un simbolo di lutto, eppure l’anziano Chaplin ne era davvero convinto. A questo punto, per dipanare il giallo floreale, c’è un’unica via d’uscita: ricorrere alla rêverie, all’immaginazione ad occhi aperti da cui scaturiscono ipotesi fantasiose, ma non così inverosimili. Soffermiamoci sul finale di Luci della città, allorché la fioraia, che ha riacquisito la vista grazie a Charlot, ritrova davanti a sé il vagabondo benefattore. In quella sequenza, la ragazza espone dei… crisantemi bianchi.
Allora, suggerisce Gallucci, vuoi vedere che Chaplin aveva talmente introiettato Duse che, nel riportarla alla memoria, il ricordo di lei si fondeva col ricordo di un capolavoro da lui diretto? Ma non finisce mica qui.
Quando lei porge il fiore a Charlot, stavolta si tratta di una… rosa bianca, come le rose reali della compagnia di Duse.
Questa dualità tra rose e crisantemi potremmo, lasciandosi sedurre da Jung, interpretarla come una compenetrazione tra Duse e Chaplin. Le mani del vagabondo che tengono il fiore sono cariche, come le mani di Duse, di una «vitalità interna che si estende oltre le luci del palcoscenico»; il sorriso del reietto è simile al sorriso della diva che secondo Strasberg «sembrava venisse dalle dita dei piedi, attraversasse il corpo e arrivasse al volto e alla bocca e assomigliava al sole che sbuca dalle nuvole».
Con queste premesse di sincronicità, si può concludere estendendo a Chaplin ciò che Mrs Fiske, attrice-mito a cavallo tra i due secoli, disse a un giovanissimo ammiratore, il quale confessava di non aver mai visto Duse. «Allora», chiosava arcigna, «che ne sai tu di recitazione?».