La Stampa, 9 settembre 2024
Mussolini e le donne
La scena di Gennaro Sangiuliano che piagnucola davanti alle telecamere per chiedere perdono a sua moglie dopo la “scappatella” con Maria Rosaria Boccia è quanto di più lontano si possa immaginare da quella virilità stereotipata che è stata, da sempre, tra i principali riferimenti del sistema dei valori a cui il fascismo vecchio e nuovo si è ispirato. Ma la virilità mussoliniana era un’altra cosa. E non solo per la declinazione guerriera e bellicista che ne fece il Duce, con l’esaltazione della romanità e il trionfo di una concezione razzista e gerarchica della società italiana, ma proprio nella sua accezione più sessista e di genere, quella che insomma si insinua nei recessi più profondi del rapporto uomo/donna.Mussolini se ne propose come l’incarnazione, direttamente, sia nelle sue dichiarazioni pubbliche che nel suo “privato”. «Non divaghiamo a discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa. Io sono piuttosto pessimista, io credo ad esempio che la donna non abbia grande potere di sintesi, e che quindi sia negata alle grandi creazioni spirituali», aveva affermato alla Camera il 15 maggio 1925, in una discussione sulla concessione del diritto di voto alle donne, dichiarandosi favorevole con questa singolare motivazione: «Non accadrà nulla negli ambienti familiari. Per una ragione molto semplice. Non dovete credere che domani la vita della donna sarà dominata da questo episodio. La vita della donna è dominata sempre dall’amore o per i figli, o per un uomo. Se non lo ama gli ha già votato contro». E, in un’altra occasione, si era lasciato andare a una considerazione quanto meno buffa: «Ho constatato che parecchie donne dei cantonieri erano incinte, ho sempre pensato che la casa cantoniera sia eminentemente demografica e non è stato questo uno degli ultimi motivi che mi ha indotto a costruirle».Quanto alle sua vita privata, la moglie Rachele Guidi era la “sposa”, rispettata e amata solo come entità sublimata, pronta a sottomettersi all’ignobile farsa di un matrimonio religioso, celebrato il 29 dicembre 1925 – dopo quindici anni che vivevano insieme! – per soddisfare la smania di rispettabilità del marito o a sfiancarsi in difficili gravidanze senili per dare l’esempio nelle battaglie demografiche decise dalla “ragion di stato”. Margherita Sarfatti, la sua antica collaboratrice all’Avanti!, che lo aveva seguito nella sua peregrinazione politica, diventando direttrice della rivista ufficiale del fascismo Gerarchia e sua biografa personale, era I’"intellettuale” che lo gratificava nelle sue velleità culturali. Le mogli dei gerarchi, le signore dell’alta società romana, le giornaliste straniere, le amanti di un giorno che egli prendeva rapidamente, senza effusioni, in uno dei tanti automatismi della sua interpretazione del potere, sul davanzale di pietra del finestrone del suo stesso ufficio di lavoro a Palazzo Venezia, erano le “conquiste” che ne appagavano il desiderio di autoaffermazione virile. Claretta Petacci era infine l’"amante”, forse la sua unica e autentica scoperta del sesso come momento di abbandono e di gioia; con lei stabilì un’intesa emotiva fortissima, diede vita a un “amore” che gli consentì di avviare un contatto umano profondo e duraturo.La genuinità di questi sentimenti non riusciva però a riscattare l’intera situazione dalla banale tipicità di uno dei tanti squallidi ménage a trois largamente diffusi nella pratica e nell’ideologia del familismo italiano. In più Mussolini ci aggiunse di suo una figura fisicamente imponente, capace di sedurre e affascinare le donne soprattutto. Nelle lettere che arrivavano alla sua Segreteria particolare è proprio la sua “fisicità” ad essere quasi un oggetto di culto: «Nella mia vita non avevo mai passato una giornata così felice, ebbi la fortuna di vedervi da vicino e quel sì che noi rispondemmo alle vostre domande è un giuramento fatto col cuore da noi donne d’Italia», aveva scritto, ad esempio, C.R., il 25 giugno 1937, mentre un’altra lettera, da Siena, di una «malmaritata con un uomo freddo come un canapo stretto alla gola», ci offre la testimonianza diretta dei trasporti amorosi che si accompagnavano alla sua “virilità” («V’ho visto ieri nella tumultuosa visita che avete reso alla nostra antica città. Ho incrociato il mio sguardo con il vostro: vi ho detto ammirazione, devozione, rivelato i miei sentimenti...») e della dimensione irrefrenabile dell’entusiasmo che suscitava («Certo in seno mi batte un cuore e non una spugnaccia annegata nella sugna come a quei filari di donnette che vi hanno accolto in piazza quasi mettendo in pericolo la vostra vita, arrivando a spezzare i vetri della vostra vettura pur di toccarvi: zotiche, assassine, come le odio!») che, in qualche caso, arrivava a mettere in pericolo la sua stessa incolumità.Questo carisma, per intenderci, in Sangiuliano era completante assente; ed è questo un problema che hanno tutti quelli che sbandierano la virilità come valore. Se lo si fa, bisogna stare attenti a non diventare un oggetto di derisione piuttosto che di culto. Ed è quanto è capitato all’ex ministro della Cultura che ha riprodotto in una farsa estiva molti degli elementi che alimentarono l’epos mussoliniano, senza esserne all’altezza né fisicamente né psicologicamente. Questo vuol dire che gli esponenti della destra al governo non somigliano affatto ai loro progenitori fascisti? Può darsi; per ora prendiamo atto che ci hanno fatto vivere una gigantesca farsa sperando che ci venga risparmiata ogni tipo di tragedia.