il Fatto Quotidiano, 9 settembre 2024
Nando Dalla Chiesa sulle strade di don Puglisi
Camminarci è un’esperienza. Soprattutto se tra marciapiedi un po’ reali e un po’ immaginari guidi una quarantina di studenti in fila indiana, che visibilmente con il quartiere non c’entrano nulla. E soprattutto se dalle strade che fanno e da chi li affianca è facile capire che cosa vogliono, con chi sono venuti a parlare. Molti zaini e poche foto. Sono qui per il centro “Padre Nostro”, un luogo che ha fatto la storia: padre Pino Puglisi, Brancaccio, Palermo e Cosa Nostra. Il sangue arrivò dopo la celebre scomunica di Giovanni Paolo II nella valle dei Templi. Il prossimo 15 sarà l’anniversario dell’assassinio. Valentina, la volontaria che accoglie gli studenti, manda in onda la registrazione del racconto fatto al processo dai due sicari che gli tesero l’agguato per conto dei fratelli Graviano: Gaspare Spatuzza che lo indicò al killer (il famoso “padre, questa è una rapina”) e Salvatore Grigoli che lo ammazzò. Le immagini, il suono delle parole, le brevi interviste immortalate da frammenti di tivù locali, restituiscono più di trent’anni dopo il senso di un insanabile conflitto di civiltà. Della linea che divide, sempre e comunque, bene e male.
In tutti passa un filo elettrico di commozione. Valentina, uno strepitoso accento palermitano, in quel quartiere ci è nata. E visibilmente lo ama, e tanto, a dispetto di tutto. Anche quando racconta dei combattimenti di cani organizzati negli scantinati di un palazzo lì accanto, con i resti di quelle lotte dati ai ragazzini per vivisezionarli o buttarli giù dai terrazzi come la spazzatura. Anche quando ricorda il destino da vita maledetta di un suo compagno di scuola. Perciò chiede agli studenti di interrogarsi seriamente se stiano mettendo a frutto quella “botta di c.” che ha consentito loro di nascere in un altro contesto sociale. Ma Brancaccio lo ama tanto anche padre Maurizio (non “don”, qui è espressione “equivoca”), che oggi vi svolge il ruolo che fu di padre Pino. Accoglie con parole non gridate, dicendo cose profonde. Difficile prendere appunti. Quel che hai intorno è talmente grande e fitto che lo puoi al massimo imprigionare nelle sensazioni. Ma una cosa è, quella sì, indimenticabile. Ossia la prima uscita dal Centro. Sono da poco passate le undici. Padre Maurizio procede vicino alla strada. In direzione opposta arriva uno scooter con due giovani sopra, niente casco naturalmente perché qui vanno tutti senza casco, anche sul piazzale del Palazzo di Giustizia. Due sole parole vengono urlate da chi guida. Tanghere, berce. Una bestemmia. Chiara, compiaciuta. In sfregio al prete, a questi preti che non l’hanno ancora capito che qui sono sgraditi, specie se parlano coi forestieri (anche se non abbiamo detto una parola, per strada sanno già chi sono quegli studenti e chi li guida).
Padre Maurizio resta apparentemente imperturbabile. In fondo è il suo paesaggio quotidiano. Procede spiegando che ci sono stati dei miglioramenti. Sì, la scuola elementare è una specie di discarica (“perché qui quel che è pubblico deve apparire brutto”). Ma la scuola media tanto voluta da padre Puglisi, quella si è fatta, almeno. A ogni anniversario vengono a promettere cose nuove (“è da tre amministrazioni che questo spazio qui dovrebbe essere bonificato”). Passiamo, perché quello vuole la strada, sotto la casa dei Graviano, i due fratelli che durante il 41 bis hanno entrambi avuto figli. Valentina e Padre Maurizio prendono tra le braccia un po’ di bambini che arrivano dalla strada. In mezzo ai detriti di una casa scomposta dal tempo si erge al primo piano un meraviglioso giardino di fichi d’India. Spontaneo, come forza di una poesia superiore che si impone alle brutture. Valentina, padre Maurizio, i fichi d’India, immagini degne di Letizia Battaglia scattate da un fotografo locale, testimoniano che non esiste violenza in grado di uccidere la speranza. Dice che prima era molto peggio. E dunque crediamoci.