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 2024  settembre 09 Lunedì calendario

Stella Assange: “A Gaza i reporter rischiano l’accusa di terrorismo”

Il conflitto più “teletrasmesso” della storia è anche quello di più difficile accesso per i giornalisti e mette alla prova la nota frase di Julian Assange: “Se le guerre possono essere iniziate con le bugie, la verità può farle finire”. “Israele/Gaza: come uscire dal mattatoio” era il titolo del panel della festa del Fatto Quotidiano dedicato a quanto sta accadendo in quel fazzoletto di terra insanguinato. Ospite d’eccezione Stella Moris Assange, avvocato, moglie del fondatore di Wikileaks e capofila della battaglia per la sua liberazione (in collegamento dall’Australia). “Parlare di guerra è anche parlare di giornalismo di guerra. Nel conflitto a Gaza si sente la mancanza di un lavoro investigativo come quello di Wikileaks sulle guerre in Afghanistan e in Iraq”, ha esordito la vicedirettrice del Fatto Maddalena Oliva che moderava l’incontro con sul palco Gad Lerner, Alessandro Di Battista e Martina Paesani, infermiera e operatrice di Msf-Medici senza frontiere.
È la prima volta, dopo la liberazione del fondatore di Wikileaks, che Stella Assange si concede a un’intervista video con il pubblico italiano. E sul palco della festa del Fatto si è discusso non solo del caso Assange (ha raccontato di come il marito si stia riappropriando di una vita normale, “come guardare l’orizzonte e il mare”, e di come presto si sentirà pronto per parlare) ma anche molto di guerra e censure e limitazioni al racconto stesso dei conflitti. Secondo Stella Assange, dal 2010 (quando Wikileaks pubblicò il video Collateral murder) la possibilità di svelare le atrocità della guerra è aumentata, come la possibilità di indignarsi: “La quantità di immagini che viene diffusa dalla Striscia rende molto difficile voltarsi dall’altra parte”. E aumenta la possibilità di denunciare l’ipocrisia delle democrazie occidentali che giustificano le loro guerre con la definizione “guerra giusta”. “Credo che una delle molte cose che stiamo imparando a Gaza è il ruolo che tante potenze occidentali hanno nel conflitto”, ha argomentato Stella Assange citando la dipendenza di Israele dalle armi e dall’intelligence occidentali. Interessi che confliggono con le leggi internazionali e il rispetto dei diritti umani. Parallelamente, però, dopo il caso Assange è cresciuta anche la forza con cui gli Stati reprimono il dissenso: “Una volta, chi protestava per la Palestina poteva essere accusato di danneggiamento, oggi a Gaza e non solo può essere accusato di terrorismo. Nel Regno Unito è successo anche a giornalisti”, ha detto Assange.
Una testimonianza diretta della situazione nella Striscia è venuta nell’intervento di Martina Paesani di Msf, rientrata da pochi mesi dalla Striscia: “La guerra di Gaza non ha paragoni rispetto ad altri conflitti che ho vissuto, come la Siria o lo Yemen. Dire che a Gaza nessun luogo è sicuro non è uno slogan”, perché il rischio di morte per i palestinesi non viene solo dalle bombe israeliane, ma anche dalla carenza di cure e aiuti umanitari. “MSF ha dovuto evacuare 14 ospedali da quando è iniziata la guerra”, ha ricordato Paesani. E la mancanza di medicine, cibo, acqua potabile, le condizioni igieniche precarie, hanno provocato, da ultimo, focolai di poliomelite.
Per Alessandro Di Battista, questa “non è una guerra, ma un massacro compiuto da uno degli eserciti più importanti del mondo, supportato da quello più potente al mondo” (quello Usa). “Israele è il peggior stato terrorista al mondo, che pratica l’apartheid e la pulizia etnica per arrivare all’obiettivo dell’espulsione dei palestinesi dalla Striscia e dalla Cisgiordania”, ha scandito dal palco. Nella lettura di Di Battista, il 7 ottobre è stato un pretesto per Israele per accelerare il processo di annessione dei Territori palestinesi. La platea si è divisa. Gad Lerner ha espresso una posizione non meno indignata per le sofferenze imposte ai civili a Gaza, ma attenta anche alle responsabilità dell’islamismo radicale. Tel Aviv è caduta nella trappola di Hamas, ha detto: “Questa strage prosegue da 11 mesi e rappresenta il paradosso per cui tanto più massacra la popolazione che ha come obiettivo, tanto più indebolisce chi perpetra il massacro. La sicurezza di Israele oggi è ancora più precaria e vulnerabile di quanto fosse prima”. Di fronte al massacro, “come mettere a frutto il moto di indignazione?”, si è chiesto Lerner. “Le strade sono due. O ripercuotere la logica della violenza e sostenere la resistenza armata di Hamas, oppure il cessate il fuoco subito”. Questa seconda strada “risponde all’imperativo concreto di chi è nato in quella terra e ha famiglia laggiù, da una parte o dall’altra”. L’imperativo della convivenza.