Corriere della Sera, 3 settembre 2024
Intervista a Giulia Manzoni
Lui, bergamasco, il suo Olimpo lo trovò a mezz’ora da Roma: Campo del Fico ad Aprilia, poggio vista mare foderato di macchia in un «silenzio divino». Lo comprò e vi costruì la casa della vita. Una dimora a un solo piano di quasi 700 metri quadri, più il laboratorio grande quasi il doppio, in 20 ettari di terra: il regno di Giacomo Manzù (1908-1991), gigante della scultura del Novecento. Giulia Manzoni, presidente della fondazione intitolata al padre (che volle declinarsi il cognome in dialetto), vive ancora qui. Forse, per poco. «La proprietà, smisurata per me sola, è in vendita (richiesta iniziale 4,5 milioni di euro, ndr); l’atelier, però, è vincolato, ci stanno i suoi ferri e qualche gesso». Qui anche le ceneri dello scultore, traslate nel 2020 dal vicino museo di Ardea, custode delle oltre 400 opere donate da Manzù allo Stato italiano nel 1979.
Quando lei nacque suo padre era già artista di fama. Come lo ricorda?
«Sebbene non fosse per niente alto, da piccola lo vedevo grande, grandissimo. Per me era un semidio, non riuscivo a riconoscere in lui la figura paterna; provavo soggezione, quasi timore e cercavo la sua attenzione in ogni modo, anche maldestro, facendo per esempio i dispetti a mio fratello Mileto».
Che tipo era?«Sicuro, autoritario, solitario e di poche parole; col suo vocione lo sentivo dare ordini a collaboratori e domestici, ma quando i miei genitori per un periodo si separarono l’ho visto piangere come un ragazzino».
Sua madre – Inge Schabel, danzatrice classica, tedesca di Monaco di Baviera – ne è stata musa, compagna, complice, collaboratrice...
«Si conobbero a Salisburgo, in quel momento lei era modella di Oskar Kokoschka. A dispetto dei quasi trent’anni di differenza, fu subito amore folle, estremo, perverso per dinamiche psicologiche, come emerge dalla biografia di mamma, Lo scultore e la ballerina».
Manzù la ritrasse un’infinità di volte secondo la sua pratica di operare per cicli: gli Amanti, la Danza, i Cardinali, le Crocifissioni. Quale, tra tutte, l’opera più sofferta?
«La Porta della Morte per San Pietro in Vaticano. Lo impegnò per quasi vent’anni, anni di ripensamenti, cambi di rotta, tensioni con la commissione vaticana per le continue ingerenze che ne limitavano la libertà; quando papà fu sul punto di mollare, papa Giovanni gli disse: tu non ascoltarli e fai come vuoi».
I due che rapporti avevano?
«Confidenziali; erano della stessa città, Bergamo, nati entrambi in famiglie povere; si assomigliavano pure, sembravano fratelli».
Manzù era cattolico e comunista.
«Era uomo di fede e di alti principi morali, premio Lenin per la Pace 1966; leggeva tutti i giorni l’Unità, per lui non esistevano altri giornali».
Pingue, le dita grassocce, l’accento bergamasco, non incarnava la figura del vate. In un’intervista disse: «Io non credo all’ispirazione, la lascio ai dilettanti; credo solamente nel lavoro». Era così?
«Considerava se stesso un artigiano e l’arte un mestiere. Ogni giorno – come un impiegato o un operaio – andava in studio o in fonderia, ne aveva fatta costruire una qui, in tenuta. Colle Manzù comprendeva tutto il suo mondo: l’atelier, la casa, gli affetti. Era uomo stanziale e di famiglia; il suo posto preferito la cucina, dove lo trovavi spesso a mangiare pane inzuppato nel latte».
Nel tempo libero?
«Ascoltava musica classica in salone a tutto volume, da Bach a Verdi, qualche volta Bella ciao. Gli piaceva il pugilato, seguiva gli incontri in tv e se andavano in onda di notte si alzava; credo che in quegli atleti così ben torniti trovasse qualche cosa di scultoreo».
Riti familiari?
«Le domeniche a Torvaianica per mangiate di pesce in una trattoria che non c’è più, Pippo l’abruzzese».
Cosa lo divertiva?
«Fare la spesa. Una volta alla settimana andava ad Anzio con l’autista nelle sue botteghe di fiducia – il macellaio, il pescivendolo, gli alimentari – e al ritorno tirava fuori tutto come fosse un bottino. A volte si metteva a cucinare i piatti di quando era bambino, cose pesantissime: minestroni con orzo e fagioli che bollivano per cinque-sei ore e sughi con cipolle, non una, ma dieci; lui andava oltre in tutto. Anche nel bere».
Esagerava?
«Esagerava. Beveva champagne, in certi periodi fin dal mattino; ne ordinava una cinquantina di casse alla volta da Chiarotti a Roma e le stipava in cantina, voleva stare tranquillo. Mamma era disperata, lo portò a disintossicarsi in Germania; i medici gli tiravano le orecchie, ma il fegato non stava poi così male. All’ultimo dovette accontentarsi di un vinello bianco locale diluito con acqua».
Con mostre, riconoscimenti, committenze internazionali del massimo prestigio, Giacomo Manzù, amato da critica e mercato, viene baciato dal successo in vita.
«Ne era orgoglioso, ma ugualmente insoddisfatto. Viveva un eterno conflitto tra ciò che voleva e ciò che faceva. Quando si sentiva sconfitto dalla materia, distruggeva con rabbia quel che non gli riusciva e lo vedevamo rientrare in cucina mesto, con le mani blu».
La pagina più dolorosa, la morte di Pio...
«...il figlio avuto dalla prima moglie Tina, designer di automobili di grande talento. Fu Pio a progettare per la Fiat la 127. Ebbe l’incidente in autostrada, vicino a Torino, forse un colpo di sonno, su una 500 modificata da lui, aveva trent’anni. Quando arrivò la notizia fu uno choc. Papà si attaccò alla bottiglia e fumava tantissimo, come conseguenza ebbe una specie di ischemia. Quando si chiudeva nel dolore tendeva a distruggere e a distruggersi».
Era un proverbiale misantropo. Evitava i viaggi, usciva poco, rifuggiva da salotti e mondanità, ma non visse da isolato.
«Venivano a trovarlo in tanti; critici come Cesare Brandi, politici come Andreotti e Cossiga, anche Christian Barnard, al quale fece il ritratto. E gli amici, da Dino De Laurentiis con Silvana Mangano a Renato Guttuso accompagnato dalla moglie Mimise. Papà non sopportava la Marzotto; una volta, a un ricevimento all’ambasciata americana, lei lo avvicinò cinguettando: Maestro, si ricorda di me? Certo – rispose – lei è l’amante di Guttuso. Quindi girò i tacchi e la piantò lì».
Quali scultori apprezzava?
«Due: Picasso per la genialità nel lavorare tutti i materiali e Fidia per i panneggi, tutto ciò che era movimento lo affascinava».
I suoi maggiori collezionisti?
«In Italia Gianni Agnelli, Carlo Ponti, che acquistò buona parte degli studi preparatori per la Porta della Morte, e Pietro Barilla, che commissionò a Manzù la sua unica opera astratta, Grandi pieghe al vento, colosso di 12 metri d’altezza; prima doveva andare in America, poi all’ingresso dello stabilimento di Parma, alla fine, non ricordo il perché, è rimasta da noi».
Cosa lo feriva?
«Che qualcuno si approfittasse di lui; era profondamente generoso, ha aiutato tutti quanti ha potuto».
Un suo difetto?
«La totale mancanza di spirito didattico; parlava malvolentieri di scultura e si rifiutava di dare consigli ai giovani».
Nelle foto lo si vede modellare con giacca e cappello.
«Sempre. I cappelli li collezionava. John Huston, maestro del cinema hollywoodiano, suo grande amico, gli portò in dono un sombrero e un copricapo indiano bordato di piume lunghissime».
Altri vezzi?
«Avere in tasca, pure in casa, almeno un milione di lire, indossare camicie sgargianti spesso impataccate di creta e farsi fare scarpe su misura, anche se poi non le metteva. Come quella volta a Milano, per l’inaugurazione dell’opera fatta realizzare da Campari, che uscì dal Principe di Savoia in ciabatte. E io mi vergognai da morire».