Tuttolibri, 8 settembre 2024
Tahar Ben Jelloun: nel nuovo matrimonio marocchino è lei che lascia lui
Erano giovani e innamorati, stavano finendo l’università a Parigi, di lì a poco sarebbero tornati in Marocco per sposarsi e cominciare la vita che si erano promessi. Lui pediatra e lei farmacista. Un giorno gli era capitato di guardare Scene da un matrimonio, di Ingmar Bergman. Film del 1972, testimone di un’epoca e di un costume, tormentatissimo racconto della fine di un’unione, lui che lascia lei perché si è innamorato di un’altra, ma al tempo stesso è geloso dei nuovi rapporti della moglie alla quale non concede il divorzio. Uomo debole, donna forte. Film esemplare, simbolico, dolorosissimo, una discesa nella vita di coppia che può trasformarsi in un inferno.
Nabile e Lamia, i due giovani marocchini, avevano trovato il film forte e disperato, ma alla fine avevano anche riso: «A noi non può succedere». Ed era giusto che la pensassero così. Sennonché la vita non è un copione già scritto. Dopo dieci anni, due figli, il successo professionale, l’acquisito benessere, la stabilità di un’immagine sociale nella buona società della tumultuosa Casablanca, inevitabilmente arriva la crisi. Lei sospetta di lui e di una vicina, ma è solo una messinscena per coprire il suo tradimento che poco dopo lei stessa confessa al marito, che nemmeno se lo immaginava. Di colpo la quieta sicurezza del loro ménage e tutte le piccole abitudini esplodono. È la crisi. È anche la fine della loro coppia?Fin qui la storia sembrerebbe ordinaria, fin banale. Quello che rende straordinaria la vicenda raccontata da Tahar Ben Jelloun nel suo nuovo romanzo Gli amanti di Casablanca in uscita dalla Nave di Teseo per la traduzione di Anna Maria Lorusso è che la protagonista è lei, Lamia: lei tradisce il marito ed è lei a chiedere il divorzio perché glielo permette il nuovo codice di famiglia. Una rivoluzione in una società dove le donne potevano esser ripudiate, non avevano alcun diritto, dove le famiglie si formavano per tradizione, non si divorziava, l’infedeltà era inconcepibile. Nabile e Lamia, i due protagonisti del romanzo sono originari di Fès (come l’autore), città santa considerata la capitale culturale, custode di tradizioni, anche famigliari: «I suoi abitanti – scrive Ben Jelloun – si sposano tra loro, non si mescolano e hanno paura dei cambiamenti, non divagano, non lasciano spazio alla fantasia o al disordine». Ma tutti i parametri sociali e culturali saltano quando i due si stabiliscono a Casablanca, la capitale del «nuovo» Marocco. Tahar Ben Jelloun, sulla soglia degli ottant’anni, l’autore di lingua francese vivente più tradotto nel mondo, pubblica un romanzo che celebra una novità sociale del suo paese e insieme rompe lo stereotipo della donna marocchina vittima perenne dell’uomo e della tradizione.Ben Jelloun, perché questa scelta?«L’idea del libro mi è venuta a Casablanca, osservando da vicino i comportamenti della nuova borghesia marocchina nelle occasioni di cene e serate, dove ho notato un relâchement nei costumi, tra uomini e donne».Cosa intende, più libertà o più dissolutezza?«Non giudico, è una constatazione. Da quando è entrato in vigore il nuovo codice di famiglia, è esploso il fenomeno dei divorzi. È molto visibile e ho voluto raccontarlo perché io stesso ho incontrato molte donne divorziate, tutte tra i trenta e i quarant’anni, con uno o due figli. Tutte indipendenti economicamente. Evidentemente quelle che non possono permetterselo restano in famiglia a subire la loro condizione».E come sono le procedure?«Il nuovo codice di famiglia ha dato alla donna dei diritti che prima non aveva, soprattutto può chiedere il divorzio e tutto si svolge come in Europa: con gli avvocati e un giudice. Gli uomini non possono più ripudiare la moglie come avveniva in passato, quando in qualunque momento l’uomo poteva dire alla donna: vattene non sei più mia moglie».Come hanno reagito i suoi lettori marocchini?«Quando ho presentato il mio romanzo a Casablanca, una donna mi ha fatto notare che per la prima volta nel titolo di un romanzo di letteratura marocchina compariva la parola amante, che è una parola che richiama immediatamente all’idea di adulterio. Ed era la prima volta che questo tema veniva trattato letterariamente. Le reazioni sono state contrastanti: c’era chi approvava chi invece se ne lamentava. C’è stato chi mi ha detto: allora per lei la modernità consiste nel permettere a vostra moglie di andarsene con un amante?»E lei cosa gli ha risposto?«Che la modernità è un valore di libertà individuale. Ma se la moglie se ne va con un altro, è un problema della coppia, significa che il matrimonio non funziona. Non è un problema morale. Se una donna si innamora di un altro, non significa che se lo sia cercato, è che succede».Rompendo questo tabù ha voluto anche mettere in discussione il matrimonio tradizionale?«In un certo senso volevo anche contrastare un’idealizzazione del matrimonio, come se fosse la conquista di una situazione di pace permanente. No, il matrimonio è una turbolenza, come un viaggio in aereo, uno sballottamento continuo: bisogna avere le cinture di sicurezza ben allacciate e affrontare i vuoti d’aria. È questa la vita, non è un viaggio tranquillo».Ma cosa significa questo nella società marocchina così legata alle forme tradizionali?«Non è mica la fine del matrimonio, i ragazzi si innamorano, si amano, fanno sesso e si sposano come sempre. Non è che qui non capitassero crisi matrimoniali e adulteri, si faceva come in Italia quando non c’era ancora la legge sul divorzio, negli anni Cinquanta e Sessanta. Tutti ci ricordiamo del film di Pietro Germi Divorzio all’italiana con Mastroianni e la Sandrelli. Ecco, qui si faceva lo stesso: un divorzio alla marocchina. La differenza è ora che la donna ha più diritti di una volta e scopre la libertà di poter fare una scelta».Un’evoluzione positiva?«Un avanzamento della libertà e io non voglio dare nessun giudizio morale sui comportamenti delle donne. Come nella storia del mio romanzo: lei se n’è andata, è tornata piangendo rivelando al marito che l’amante l’aveva lasciata, ma che ormai aveva già deciso di divorziare: è la vita… Senza togliere ai lettori la sorpresa della lettura, ci tengo però a dire che è una storia che finisce bene».Una storia che sarebbe stato difficile raccontare senza Casablanca. Cosa rappresenta per lei questa città?«È vero. Per la prima volta ho usato Casablanca come un personaggio del libro perché non è soltanto una città, ma una visione del mondo, una mentalità, il cuore e il polmone del Marocco. Una città inventata dai francesi all’inizio del Novecento, per la comunità francese, non per gli “indigeni”, come dicono loro. Grande città perché è diventata la città degli affari. Non è Rabat, non è Tangeri, né Fès, è la capitale economica del paese, girano molti soldi, ci sono molti ricchi e molti poveri. È una città violenta, con delinquenza, droga e prostituzione, una metropoli di più di 4 milioni di abitanti, come Rio o il Cairo, dove ci sono contrasti stridenti e una lotta di classe silenziosa. Un film sulla vita oscura della città, intitolato Casanegra, una quindicina d’anni fa ebbe molto successo».Fu anche candidato all’Oscar, mentre “Casablanca” con Ingrid Bergman e Humphrey Bogart resta un mito di Hollywood. Ma cos’è la Casablanca del suo romanzo?«È la città del denaro e del potere, dove vive una società moderna, francofona, gente che ha studiato in Francia, Inghilterra, Stati Uniti, ingegneri, medici professionisti, farmacisti, imprenditori, è l’élite del paese che si vuole moderna nei consumi ma che al tempo stesso vorrebbe conservare un equilibrio tra la modernità occidentale che ha imparato e integrato e la tradizione marocchina. Vivono su due registri, un po’ occidentali e un po’ orientali. È la città dove ritrovo tutto quello che lascio a Parigi, il traffico, l’inquinamento, lo stress e persone spesso maleducate. Ma era la scenario ideale per il romanzo che avevo in mente».Ci fa la sinossi del romanzo?«Volentieri. Due giovani marocchini di oggi, si incontrano a Parigi studenti. Lei è di famiglia molto più ricca, il padre le acquista una farmacia, poi le dà il denaro per comprare il terreno e costruire la casa di famiglia nel quartiere bene di Casablanca. La famiglia di lui è molto più modesta, lui eredita lo studio dello zio in una zona popolare della città, è un pediatra che si dà interamente alla professione con molta generosità e umanità. A un certo punto va anche in missione a Gaza per soccorrere i bambini feriti».Ci sono altre differenze: lui è un lettore raffinato di Kundera e dei “Saggi” di Montaigne; lei imprenditrice di successo preferisce le soap tv brasiliane e turche. Scrivendo questa storia lei ha scelto di stare dalla parte dell’uomo. Perché?«È la parte debole, lei invece è quel tipo nuovo di nuovo modello sociale di donna marocchina che ho osservato a Casablanca, donne che amano il denaro e il potere, lo affermano nella loro vita di coppia e lo fanno sapere in società. Quanto di più lontano dalla tradizione della donna vittima della famiglia».In tutto questo strappo di modernità, restano però delle costanti della tradizione come il pellegrinaggio della protagonista Lamia fa a la Mecca. Perché?«Ci va per devozione, perché in quel momento della storia è molto religiosa, ma ci va anche per acquistare gioielli indiani. Come dicevo, convivono in questo nuovo Marocco la modernità e l’attrazione per la ricchezza e il rispetto della tradizione».La Francia e la lingua francese rappresentano ancora un modello di riferimento?«I figli delle élites vanno sempre di più a studiare nei paesi anglosassoni. Ma la Francia resta il polo principale di attrazione per gli studi, anche se non ci sono evoluzioni nella vita dei marocchini in Francia, anzi, negli ultimi tempi il razzismo è sempre più virulento».E come vanno le relazioni diplomatiche tra i due paesi?«Ora è una luna di miele perché Macron ha riconosciuto la marocchinità del Sahara, qualcosa che era atteso e indispensabile, scatenando una reazione minacciosa dell’Algeria che è oggi governata da generali molto gelosi del successo economico e culturale del Marocco. Il paese con il nuovo re ha fatto un passo in avanti fantastico. Muhammad VI è molto amato dalla popolazione».Dopo il divorzio si può immaginare uno stato più laico sul modello francese?«No, questo no. Tutti i marocchini vanno in moschea, sono molto legati all’islam come valore di pace che rifiuta ogni forma di terrorismo. In Marocco l’islam è un come valore sociale che unisce la società».E lei ci va in moschea?«No, io osservo, rifletto e scrivo». —