La Lettura, 8 settembre 2024
Le tre Italie e il gelo demografico
Drin-drin. Vi ricorda qualcosa? A chi scrive fa venire in mente un romanzo, breve e famosissimo, di James Cain, Il postino suona sempre due volte, pubblicato in Italia da Bompiani nel 1958 con la traduzione nientemeno che di Giorgio Bassani e portato sullo schermo, tra gli altri, da Bob Rafelson nel 1981, in un film con Jack Nicholson e Jessica Lange, splendidi e ovviamente perfidi tutti e due.
Anche l’Italia ha il suo postino. E che postino. L’Onu, la Population Division dell’Onu. Che non fa che pigiare il campanello: drin-drin, c’è nessuno in casa? Dall’insistenza con cui lo fa si direbbe che no, non ci sia nessuno in casa o, almeno, che semmai qualcuno ci fosse non avrebbe alcuna intenzione di aprire a un così scomodo passante. Perché in fondo cos’è un postino se non uno che passa e va? Solo che a volte recapita messaggi imperdibili. O che, quantomeno, sarebbe meglio leggere che ignorare.
Uscendo dalla metafora. In questo 2024 la Population Division ci fa l’onore, ma meglio sarebbe dire che ci impone l’onere (se solo le aprissimo la porta; ed è forse proprio per questo che non lo facciamo, non apriamo la porta, per risparmiarci l’onere), di una previsione degli abitanti del nostro Paese al 2100, dunque fra tre quarti di secolo, letteralmente collassati a 35,5 milioni, la bellezza di quasi 24 milioni di abitanti meno della popolazione attuale. Dopo quello della Cina, il più grande disastro demografico del mondo intero.
Ciò che ancor più deprime di questa previsione è che essa, non bastasse, viene al seguito di previsioni tutte al ribasso. Quattro anni fa, nel 2020, sempre la Population Division dava nelle sue previsioni al 2100 la popolazione italiana largamente sopra la soglia dei 40 milioni di abitanti (43 milioni, per la precisione: beninteso, pur sempre 16 milioni meno dei 59 di oggi); soglia che nelle previsioni di due anni dopo, il 2022, era data invece solo per sfiorata (39,9 milioni). Fino alla previsione di 35,5 milioni di oggi, di oltre 7 milioni inferiore a quella di appena quattro anni fa. Insomma, a mano a mano che fa le sue previsioni – che suona il nostro campanello – la Population Division stima al ribasso il numero degli abitanti che l’Italia avrà alla fine del secolo. Così mentre le previsioni di altri Paesi europei migliorano (la Francia, la Gran Bretagna) o si stabilizzano o nella peggiore delle ipotesi arretrano moderatamente (la Germania, la stessa Spagna, che pure è messa molto male) quelle che ci riguardano sprofondano. Nell’anno ancora in corso l’andamento lascia prefigurare il sedicesimo decremento annuo consecutivo delle nascite, anche se molto limitato, che porterà queste ultime dalle 577 mila del 2008 alle 375-380 mila stimate del 2024: 200 mila nascite in meno, una via crucis che non sembra avere fine e che di fatto, dicasi di fatto, affida al movimento migratorio con l’estero un ruolo se non volete chiamarlo di sostituzione etnica, come teme il ministro Francesco Lollobrigida, chiamatelo semplicemente di sostituzione o, ancor più innocuamente, di integrazione della popolazione italiana. Altro che scemenze complottistiche sugli africani che ci invadono et similia; altro che non si può far così, non possiamo consentircelo, non è questa la strada, la strada è gli italiani che fanno più figli e simili manifesti della perfetta ignoranza dello stato a cui è giunta la demografia.
Gli stranieri hanno frenato la perdita di abitanti della popolazione italiana, segnatamente negli ultimi dieci anni e più specificamene ancora negli ultimissimi anni. In caso contrario altro che pianto, saremmo già pressappoco alla pistola puntata alla tempia. Ci vuole poco a fare i calcoli. Nell’ultimo quinquennio 2019-2023 il movimento naturale della popolazione (nascite meno morti) è stato negativo di quasi un milione e mezzo di unità mentre il movimento migratorio con l’estero (iscritti in Italia dall’estero meno cancellati dall’Italia per l’estero) è stato positivo di oltre un milione di unità: cosicché quest’ultimo è andato a ripianare il vuoto lasciato dalla differenza tra nati e morti. E, se pure non è riuscito a colmarlo del tutto, ha pur sempre consentito alla popolazione italiana di perdere 450 mila abitanti, non più di tre volte tanti, quanti ne avrebbe perduti se il movimento migratorio con l’estero fosse stato a somma zero. Nel 2023 il movimento migratorio, positivo di 274 mila unità, ha quasi colmato completamente il disavanzo tra nascite e morti, negativo di 281 mila unità.
Queste cifre dovrebbero chiarire a chiunque, perfino a Matteo Salvini, il seguente concetto. Al momento il meglio che possiamo sperare per l’Italia è che si fermi l’emorragia delle nascite: cosa che, seppure avvenisse (e il governo a questo dovrebbe mirare con tutte le sue forze, a segnare un punto che tornerebbe utile sul piano psicologico, più che non su quello materiale, riuscendo finalmente a interrompere la curva della denatalità), lascerebbe le chiavi della popolazione italiana nelle mani del movimento migratorio, dal momento che il formidabile divario tra nascite e morti (300 mila morti all’anno in più della nascite, divario che l’Istat dà in crescita fino addirittura a 500 mila morti più delle nascite) non potrà che essere, ben che vada, appena scalfito da un aumento delle nascite che – considerando che la popolazione femminile in età feconda non fa che ridursi per la denatalità dei decenni trascorsi – se pure si avverasse, eventualità più improbabile che probabile, non potrebbe che essere del tutto modesto e pressoché ininfluente.
Il vero male dell’Italia, dunque, si chiama demografia, si chiama popolazione – ormai tutti l’hanno capito, anche se stentano a comportarsi di conseguenza. Il governo ha varato un decreto flussi, per regolare l’afflusso in Italia mediamente di almeno 150 mila stranieri l’anno chiamati segnatamente a rimpolpare la forza lavoro, materia prima in grande sofferenza. Non basterà affatto per la più generale popolazione italiana; ma la strada, non foss’altro, è quella.
La strada è quella, il cammino lunghissimo. E secondo la Population Division destinato a non approdare a nulla. Perché? Perché«il male di popolazione» in Italia si è spinto troppo oltre, è andato troppo avanti. Lo si è lasciato andare troppo avanti, dovremmo con onestà intellettuale precisare.
Le ultime previsioni dell’Istat – di quest’anno anch’esse, al pari di quelle della Population Division – sono per nostra fortuna un po’ migliori, in quanto danno la popolazione italiana a 46 milioni di abitanti nel 2080: 13 milioni meno degli attuali 59 milioni ma oltre 10 milioni di abitanti più dei 35,5 della Population Division, anche se in un lasso di tempo di venti anni più breve. Attenzione, però: sono migliori non perché prevedono più nascite della Population Division – anzi, ne prevedono perfino di meno – ma perché prevedono movimenti migratori dell’Italia con l’estero decisamente più ingenti e positivi di quanto non faccia la Population Division. A stare all’Istat, nel periodo 2023-2080 verranno a risiedere in Italia dall’estero 18,2 milioni di persone, mentre usciranno dall’Italia per stabilire la loro residenza all’estero in 8 milioni, per un saldo attivo del movimento migratorio con l’estero di 10,2 milioni. Oltre 10 milioni di abitanti che acquisiremo dall’estero che non saranno sufficienti a salvarci, ma senza i quali ogni partita futura sarebbe ingiocabile.
Ma è a questo punto che il discorso non può più essere generalmente riferito all’Italia. Il perché è presto detto: il «mal di popolazione» disegna come mai prima, e come nessun altro fenomeno economico-sociale fa con la stessa nettezza, tre Italie destinate a prendere strade divergenti che approdano a destini molto diversi l’uno dall’altro. Cosicché l’Italia si dividerà tra chi si salva e chi no.
Ora si dirà che le Italie sono tre da sempre: il Nord, il Centro e il Sud (meglio è dire Mezzogiorno, a significare Sud più Isole). In quanto a ripartizioni geografico-territoriali è così senz’altro, ma in quanto ad aree con gradi di forte omogeneità interna rispetto ai maggiori fenomeni economico-sociali e culturali (dal reddito pro-capite e familiare ai livelli di occupazione fino al funzionamento dei maggiori servizi pubblici e della stessa Pubblica amministrazione) si è sempre distinto un Centro-Nord dal Mezzogiorno, a significare che c’è un dislivello tale rispetto al modo di essere di questi fenomeni che permette di bipartire, con quel tanto che queste operazioni hanno sempre di approssimativo, l’Italia tra le regioni che stanno sotto e quelle che stanno sopra il Lazio. Non per niente dalla Cassa del Mezzogiorno in poi non si fa che parlare di politiche per il Mezzogiorno. Perché c’è un problema in Italia con questo nome che non sappiamo bene come affrontare, per quanto dal secondo dopoguerra non si sia fatto che discuterne. Bene, la demografia per come è già oggi, ma ancor più per come sarà, ci dice che non è più così, che il Centro-Nord è entità sempre più fittizia e destinata a scindersi in due. Portando a tutti gli effetti a tre le Italie, dalle due come le abbiamo sin qui considerate. Il Centro non tiene il ritmo del Nord, che per quanto sia anch’esso moderatamente negativo basta a infliggere distacchi formidabili al Centro e, doppiamente, al Mezzogiorno.
Il «mal di popolazione» si concretizza in questi rapporti: 1 al Nord, 2 al Centro, 4 nel Mezzogiorno. E infatti a stare alle previsioni dell’Istat da qui al 2080 il Nord perderà il 9,5 per cento della sua popolazione attuale (passando da 27,4 a 24,8 milioni di abitanti), il Centro perderà il 20,5 per cento della sua popolazione attuale (passando da 11,7 a 9,3 milioni di abitanti), il Mezzogiorno il 39,8 per cento della sua popolazione attuale (passando da 19,9 a 11,9 milioni di abitanti). Cosicché dei 13 milioni di abitanti che perderà l’Italia da oggi al 2080 2,6 milioni sono del Nord, 2,4 milioni sono del Centro e ben 8 milioni sono del Mezzogiorno. Il Centro in assoluto perde poco meno del Nord, ma avendo una popolazione ch’è appena il 40 per cento di quella del Nord. Dei 46 milioni di abitanti che avrà l’Italia nel 2080 quasi 25 saranno al Nord, mentre nel Mezzogiorno desertificato, che pure è più esteso del Nord, restano in 12 milioni e poco più di 9 milioni in un Centro Italia risucchiato all’indietro. Da solo, il Nord, arriverà ad avere il 54 per cento degli abitanti dell’Italia.
Frutto di cosa, queste differenze? Di un solo fattore: il movimento migratorio. Il movimento migratorio è tanto esterno che, sia pure di minore entità, interno – tra regioni, tra ripartizioni territoriali dell’Italia. Nel lungo periodo 2023-2080 il movimento migratorio dell’Italia con l’estero è positivo tanto per il Nord (+ 5,5 milioni), che per il Centro (+2,3) e per lo stesso Mezzogiorno (+2,4 milioni). Ma, come si vede, diversamente positivo, perché dei 10,2 milioni di abitanti che ci aspettiamo in più dal movimento migratorio con l’estero il Nord se ne accaparra oltre la metà. E che dire dei trasferimenti di residenza interni all’Italia? Nello stesso periodo il Nord guadagna altri 1,8 milioni di abitanti grazie a trasferimenti di residenza da altre regioni italiane non del Nord. Milioni che perde il Mezzogiorno al gran completo: circa 1,9 milioni di abitanti che dalle sue regioni si stabiliscono in altre regioni. Ma, ed ecco il punto, non in quelle del Centro, che dei trasferimenti dal Mezzogiorno si giovano per appena centomila abitanti, ovvero per 0,1 milioni.
Ed ecco allora i conti finali: 7,3 milioni di abitanti in più per il Nord, 2,4 per il Centro e neppure 0,6 milioni in più per il Mezzogiorno dovuti al movimento migratorio con l’estero e con l’interno. Cosicché è per l’azione di questo solo fattore, ovvero per la capacità di creare attrazione verso l’esterno e verso l’interno, che il Nord recupera quasi al gran completo il dislivello nascite-morti, mentre lo recupera in modo del tutto insufficiente il Centro e non lo recupera per niente il Mezzogiorno.
La conclusione di tutto questo discorso, ahimè, non promette bene. In altri tempi il Mezzogiorno avrebbe avuto un movimento naturale – nascite meno morti – talmente positivo da potersi permettere l’emorragia degli abitanti per trasferimenti all’estero e in altre regioni d’Italia. Oggi il movimento naturale del Mezzogiorno è negativo al pari di quello delle altre ripartizioni, e in futuro diventerà più negativo di quello del Nord e del Centro. Il paradosso? La ripartizione – il Mezzogiorno – che più avrebbe bisogno di un movimento migratorio positivo – anche cessando di perdere abitanti che si trasferiscono al Nord – è quella che ha una capacità attrattiva decisamente minore delle altre. Come uscirne? Dire favorendo lo sviluppo economico-sociale del Mezzogiorno non è più una ricetta, è una banalità cucinata in decine di salse, tutte incapaci di fornire un piatto mangiabile. Non basta, con buona pace della Cei che non si accorge che le Italie sono già tre, opporsi all’autonomia differenziata. Servono idee, servono programmi, servono risorse, servono – soprattutto – personalità capaci, da diverse posizioni e postazioni, di farsi carico del problema. Ci è consentito essere scettici al riguardo?