La Lettura, 8 settembre 2024
Educazione civica, linee guida "patriottiche"
Visto da dentro le aule, quello che più sorprende del dibattito rovente di quest’estate sullo ius scholae – dare o no il passaporto italiano a chi ha completato un ciclo di studi nel nostro Paese? – è che la realtà, soprattutto per chi è nato qui da genitori immigrati, è già molto più avanti. Ogni mattina in classe si ritrovano fianco a fianco studenti italiani e romeni, albanesi e marocchini, cinesi e peruviani. Secondo i dati del ministero dell’Istruzione e del Merito lo scorso anno «gli alunni con cittadinanza non italiana» erano 870 mila su poco più di sette milioni: il 12 per cento su base nazionale, quasi il doppio in Lombardia.
È vero che il fatto di ritrovarsi tutti i giorni in classe a «sfregare i cervelli gli uni contro gli altri» di per sé non basta a garantire una piena inclusione a chi parte da una condizione di oggettivo svantaggio. E infatti gli studenti stranieri, soprattutto le «prime generazioni», cioè coloro che sono nati all’estero, vengono bocciati molto di più (alle superiori i ripetenti sfiorano il 50 per cento) e sono anche molto più a rischio di dispersione.
Secondo l’ultima inchiesta dell’«Economist» su perché tutti i sistemi scolastici occidentali fatichino a migliorare i risultati degli studenti più fragili, una delle cause principali è che si è smesso di sperimentare, di cercare soluzioni nuove, su misura dei diversi contesti. Provare e riprovare è in realtà quello che continuano a fare le scuole italiane con un alto tasso di studenti stranieri. Alla scuola elementare di via Paravia a Milano, 100 per cento di alunni stranieri per lo più nati in Italia, hanno persino ripescato il metodo Pizzigoni, inventato un secolo fa per alfabetizzare i bambini che parlavano soltanto dialetto a casa.
Stesso approccio creativo della scuola di Pioltello, diventata istituto simbolo delle scuole a maggioranza di alunni stranieri per via del giorno di chiusura in concomitanza con il Ramadan: bacchettata dal ministro Giuseppe Valditara perché i suoi alunni hanno ottenuto risultati inferiori alla media lombarda nei test Invalsi, a uno sguardo più approfondito è risultata in linea con i traguardi attesi per quel tipo di contesto socioeconomico in italiano, e molto al di sopra in matematica e in inglese.
Il problema di come garantire agli studenti stranieri una preparazione adeguata, però, rimane: nonostante gli sforzi di insegnanti e studenti, i dati nazionali Invalsi mostrano che alla fine della scuola media il ritardo di questi alunni in italiano è pari a circa un anno per i nati in Italia, addirittura due per i neo arrivati. Una difficoltà che si riflette anche nei risultati in matematica, di poco migliori, ma comunque ben al di sotto della media. Mentre in inglese, soprattutto in quello parlato, i non (ancora) italiani si prendono una rivincita, andando decisamente meglio dei loro compagni. A dimostrazione che il ritardo origina, essenzialmente, dallo svantaggio linguistico di partenza.
Come rispondere alle necessità di studenti che non parlano l’italiano come lingua madre è un problema di cui si discute a ondate da almeno quindici anni, da quando cioè il numero degli alunni «alloglotti», soprattutto in alcune zone – periferie delle grandi e medie città del Nord Italia – è diventato molto significativo. Per restare in Lombardia – regione che da sola accoglie più di un quarto degli alunni stranieri totali – una scuola su sette supera il limite (teorico) del 30 per cento fissato per legge dalla ministra Gelmini ormai più di dieci anni fa (dati Ismu). In questi casi spesso sono le famiglie degli alunni italiani che preferiscono iscrivere i propri figli in un plesso lontano da casa ma con più «connazionali», fenomeno noto come white flight.
Da un lato la scelta del nostro sistema educativo di puntare sull’inclusione degli alunni stranieri, anche i neo arrivati, inserendoli nelle classi scolastiche corrispondenti, al massimo in una classe inferiore, segue le indicazioni della letteratura scientifica sull’argomento. Quale modo migliore per imparare lingua e abitudini del Paese che venendo a contatto con i propri coetanei? Ma è vero che, a livello politico almeno, ci si è mossi poco e comunque troppo lentamente per aiutare davvero questi bambini e ragazzi a non restare indietro: basti pensare alla figura dell’insegnante di italiano per stranieri che è stata introdotta per la prima volta per legge nel 2016, ma che finora è stata impiegata quasi solo dai centri per l’educazione degli adulti. Nell’ultimo concorso a cattedra, su poco più di 24 mila posti per le scuole superiori, le cattedre per gli insegnanti di italiano L2 erano 36 in tutta Italia: una in meno di quelle riservate ai docenti di percussioni. E nei prossimi concorsi del Pnrr, che si svolgeranno da qui al 2026, non sono nemmeno previsti.
Eppure, il miglioramento delle competenze linguistiche, è uno dei due pilastri su cui punta il governo per favorire l’integrazione degli studenti stranieri. Per ottenere questo scopo a luglio è stata varata una legge che prevede progetti di potenziamento pomeridiano a carico delle scuole finanziate con i fondi Pon (extracurriculari) a partire da quest’anno, e dal prossimo un test di lingua, che diventerà obbligatorio per tutti i nuovi arrivati. Per chi non raggiunge il livello A2 è previsto l’affiancamento di un insegnante specializzato, ma solo se almeno un quinto dei suoi compagni di classe è nella sua stessa situazione. Con questi limiti di applicazione, la norma rischia di risultare molto poco efficace. O, peggio ancora, di avere un effetto collaterale non dichiarato: spingere i presidi a mettere insieme tutti i nuovi arrivati, formando delle classi separate, sul modello delle «classi di transizione» proposte dal ministro Valditara qualche mese fa. Un’ipotesi esposta al rischio concreto che quella che sulla carta dovrebbe essere solo una misura temporanea si trasformi in una classe ghetto definitiva.
Ma il vero pilastro sul quale Valditara ha deciso di puntare, soprattutto a livello di comunicazione, è ancora un altro, e va sotto il nome di «Nuove linee guida per l’insegnamento dell’educazione civica». Varate in tempo record perché potessero entrare in vigore già da quest’anno sostituendo quelle del suo predecessore e compagno di partito Marco Bussetti, sono state bocciate dagli esperti del Consiglio superiore della pubblica istruzione che le hanno giudicate non necessarie, confuse, retoriche e «troppo prescrittive», ai limiti del dirigismo culturale. Le nuove disposizioni mirano a far conoscere a tutti gli alunni, segnatamente a quelli stranieri, i «valori connessi all’appartenenza a un Paese che ha una sua storia, una sua cultura e una sua identità», insegnando fin dalle elementari origini e significato della bandiera italiana e dell’inno di Mameli e soffermandosi in particolare sul «concetto di Patria intesa come un valore costituzionale». Il ministro andrà avanti comunque perché lo considera il modo più giusto per «favorire l’integrazione degli alunni stranieri». Anche se sembra piuttosto un modo per dare a questi bambini e ragazzi una patente di italianità, continuando a negare loro il passaporto.