Robinson, 8 settembre 2024
Un controverso Indiana Jones
Sono cresciuta sui libri di Jules Verne, sono loro che mi hanno mostrato mondi lontani e hanno costruito nella mia testa l’immagine di ciò che è il viaggio per l’uomo occidentale; e io – che diventavo adulta nello spazio chiuso e noioso della Repubblica popolare di Polonia – proprio a questo appellativo aspiravo.
Il viaggiatore di Verne non era un personaggio qualsiasi: sebbene nelle mappe del mondo non fossero ancora scomparsi gli spazi vuoti, non sembrava preoccuparsi dei pericoli e partiva baldanzoso e temerario, con la sicurezza di chi sente che il mondo è di sua proprietà e gli è dovuto. Durante il viaggio non cambiava le consuetudini alimentari e restava fedele alla moda del suo paese d’origine ( obbligatori i pantaloni color tabacco e laredingote nera).Di solito la lingua madre gli era più che sufficiente. Si ricordava sempre di portare con sé i più recenti ritrovati della tecnica che al momento opportuno gli salvavano la vita e lo aiutavano a sopravvivere. Anche se si considerava un uomo buono e aperto, nel fondo dell’animo era sempre accompagnato dallaconvinzione della propria superiorità evolutiva e dalla certezza che esistevano indiscussi processi storici i quali, prima o poi, avrebbero condotto ogni angolo del globo terrestre al livello della civiltà occidentale. Questa eccitante avventura lo portava nelle più impervie lontananze, ma perfino lì si sentiva al sicuro, perché anche nel recesso più profondo avrebbe avuto l’opportunità d’incontrare funzionari della sua cerchia culturale che in caso di necessità gli avrebbero rilasciato il duplicato del passaporto smarrito, e avrebbero scambiato con lui qualche pettegolezzo sugli aborigeni.Il punto di vista verniano compare spesso – in una deforme formula da pastiche – all’interno della cultura pop contemporanea, per esempio nel ciclo di film sulle avventure di Indiana Jones. Lì il mondo è solo uno scenario esotico per i virtuosismi da videogame di un protagonista che, pur imbattendosi anche nella più affascinante delle culture, non può comunque cambiare: resta uguale fino in fondo a quello che era al momento dell’arrivo. Confinato nella capsula a chiusura ermetica dell’identità occidentale, si rivela impermeabile, refrattario alla diversità, pur essendo un archeologo che dovrebbe essere particolarmente sensibile al diverso. Tutto concentrato sul raggiungimento del suo scopo ( trovare un tesoro, svelare un mistero), le sue relazioni con gli autoctoni non vanno in profondità; non c’è il minimo dialogo culturale. Si rivolge a loro in inglese o francese, profondamente convinto che dovrebbero capirlo. Mantiene i suoi standard, non negozia, tratta dall’alto tutto e tutti, certo della propria superiorità culturale (e quindi anche umana). Ricordiamo tutti la famosa scena in cui viene sfidato a duello da un heyssessin. Il fatto si svolge al bazar, in mezzo alla folla che si scosta per fare posto ai duellanti. Quando il guerriero abbigliato secondo la tradizione agita la sciabola facendo sfoggio della sua abilità, Indiana Jones, che ha fretta, gli spara semplicemente con la pistola. Fine del duello.Preso alla sprovvista dal gesto inatteso, d’istinto lo spettatore comincia a ridere, anche se è sorpreso dalla propria reazione. La disinvoltura e la sfrontatezza di Indiana Jones fanno colpo, e nello stesso tempo mettono in ridicolo ogni tipo di replica politicamente corretta. Questo perché in sostanza il viaggiatore occidentale tratta il mondo come se non fosse del tutto reale. Sfreccia attraverso i paesi e le culture visitate come un’ombra perennemente frettolosa; non tocca nulla, non s’impegna in nulla, rinchiuso com’è dentro la bolla del proprio senso di superiorità.L’ingenuo ed esotico mondo in cui arriva il viaggiatore occidentale tipo Indiana Jones, il più delle volte crolla tragicamente nel finale. Lo sfacelo avviene con violenza, come se le ragioni della sua esistenza venissero invalidate nel momento in cui lo scopo è raggiunto e il mistero svelato. Lo spettatore deve vedere piramidi che si schiantano, saloni sotterranei che sprofondano, eruzioni vulcaniche e altri cataclismi apocalittici. Qui vige l’antica massima romana: veni, vidi, vici. Tutto ciò che è stato visto e sperimentato (sfruttato) viene contrassegnato con un segno di spunta, ovvero sconfitto, e dunque cessa di esistere.Il paradigma novecentesco del viaggio dell’uomo occidentale è stato industrializzato e massificato dal turismo contemporaneo. Al giorno d’oggi, infatti, l’erede di Phileas Fogg e di Indiana Jones è il turista che in dodici giorni fa il giro del Messico in pullman, con meta obbligatoria a Cancún: è il posto più orrido che io abbia mai visto, pieno di hotel mostruosi e spiagge separate. Oppure si riposa nelle stazioni balneari turche all- inclusive, cercando di non pensare ai corpi degli emigranti che alcune centinaia di metri più in là il mare scarica sulle spiagge.Quel viaggiatore pallido e intorpidito per le molte ore di viaggio scatta fotografie mosse attraverso i vetri del pullman, e può sgranchirsi le gambe solo là dove lo portano il volere e gli affari dell’accompagnatore turistico. Durante le brevi soste guarda con i propri occhi le cose raccomandate dalle guide, e annota soddisfatto nella mente che tutte esistono per davvero! Ai turisti di questa specie vengono offerte serate etnografiche real life che direal e di lifenon hanno nulla.Il turista vuole cose esotiche, ma non troppo. Vuole che sia tutto vero, ma senza mai rinunciare alla doccia del mattino. Vuole un brivido d’emozione, purché non sia inquietante. Vuole il contatto con la gente del luogo, purché non sia troppo serio e impegnativo. Una volta ho origliato una conversazione fra miei connazionali che si incitavano ad andare insieme a Cuba. S’invogliavano l’un l’altro sostenendo che bisognava andarci al più presto, finché Fidel era ancora in vita e finché c’era ancora la miseria, perché «dopo sarà uguale come dappertutto». Il business, anche quello turistico, ha spostato i confini di ciò che è etico e umanitario.Viaggiare vuol dire anche espugnare. Quando partiamo siamo accompagnati dal nostro oceano di significati, concetti, stereotipi, abitudini mentali. Le sue ondate allagano con ampiezza ciò che troviamo all’esterno. Sull’altro mondo dilaga ciò che già sappiamo, ciò che riusciamo a comprendere.Questa espugnazione è resa possibile dalle guide turistiche, che sanno meglio di chiunque altro quali luoghi visitare e che cosa vedere. Tracciano arbitrariamente i confini della nostra percezione, perché quello che non c’è nelle guide non esiste. Ci muoviamo lungo gli itinerari alla febbrile ricerca di ciò che dobbiamo vedere. E di conseguenza non vediamo nient’altro.Le guide di viaggio sono ancora un argomento a cui varrebbe la pena dedicare una speciale monografia. Mostrano infatti il modo in cui cerchiamo di fare nostro ciò che è estraneo, di addomesticarlo e inglobarlo nei nostri sistemi cognitivi. Contrariamente alle apparenze, le guide non si rivolgono alle masse; hanno sempre un fruitore nascosto con delle peculiarità specifiche, e questo loro carattere di casta – insieme al carattere politico – non dovrebbero mai sfuggire al nostro campo visivo, anzi, devono farci riflettere su che cosa stiamo veramente guardando. Una volta ho dato una scorsa ad alcune guide della stessa zona della Polonia, una scritta da cattolici, l’altra da ebrei. Erano diversissime. È probabile che i viaggiatori dei due gruppi passerebbero l’uno vicino all’altro come ombre, senza nemmeno intravedersi. I loro percorsi non s’incrocerebbero, perché l’esperienza e la visione del passato contenute in quelle guide sarebbero del tutto diverse. Possiamo tranquillamente supporre che i loro diari di viaggio – ammesso che li scrivano – parlerebbero di due mondi del tutto differenti.Ma in generale, esiste quel mondo, l’unus mundusvagheggiato dai filosofi? Un grande, neutrale e oggettivo universo dove tutti quanti abbiamo la possibilità d’incontrarci e di riconoscere il prossimo in noi stessi? O forse, vivendo in un unico spazio, in realtà viviamo dentro i nostri fantasmi?