il Giornale, 8 settembre 2024
Vittorio Feltri e le mistificazioni su Sangiuliano
Le dimissioni di Gennaro Sangiuliano occupano tutto il palcoscenico della politica così come ce la raccontano. È una falsificazione della realtà per il comodo della sinistra che, pur essendo minoranza ansimante, resta la padrona del teatrino, imponendo i titoli dello spettacolo mediatico. Lo dimostra proprio questa vicenda e il suo finale con l’autoimmolazione dell’agnello. Ce ne sarà ancora parecchio di lavoro da fare per Giorgia Meloni e il neo ministro Alessandro Giuli (auguri) per sfrattare i compagnucci dalle casematte da dove controllano abusivamente il flusso della cultura e dell’informazione. Io mi sposto perciò più in là, a margine del sacrificio rituale di un uomo perbene, sul lato sinistro del sipario. Lì si sta consumando un golpe interno ai Cinque stelle, con l’appoggio sottobanco del Pd: qualcosa di assai più serio e grave per la morale generale e per la democrazia italica della ridicola colpa imputata al grande Gennaro. Il quale non ha schiacciato una cacca squalificando le istituzioni, come si sta facendo credere, ma è scivolato sulla patata, ed essendo poco pratico del citato tubero, ne ignorava la possente dentatura. Avrebbe dovuto sdrammatizzare e persino riderne, e così sarebbe stato meglio avessero fatto i suoi sodali e alleati. Invece sono stati silenti e ingrugniti, quasi si fosse davanti a una tragedia shakespeariana e non a una divagazione secondaria della vita di (quasi) tutti. Sangiuliano non doveva lasciarsi sottomettere da Santapatata.
Gennaro, ottima e colta persona, nonché eccellente mio vice a Libero, era perfetto per essere condotto con un pretesto alla ghigliottina dove ha posato docilmente la testa: aveva ridotto ai compagnucci i territori della loro occupazione indebita di qualsivoglia ente culturale, smascherando come fregnacce i luoghi comuni sulla superiorità culturale di costoro. Ed è invece cascato su una pinzillacchera, caricandosi la gnocca come fosse una colpa da sentenza capitale.
Il vero scandalo, trattato come una bega tra scappati di casa per non valutarlo per quel golpe in carta bollo che è, riguarda il contenzioso tra Beppe Grillo e Giuseppe Conte. Tra chi dei due abbia il diritto di portare come un’aureola la corona di cinque stelle, e dunque di decidere quali siano i dogmi intoccabili. Grillo fa appello alla storia, a quello che in fin dei conti è la politica: avere un’idea, bella o brutta, sulla vita comune degli uomini e i loro interessi materiali. Lui l’ha intuita dentro il corpaccione del popolo e quindi formulata e fatta correre per le strade, urlare nelle piazze e infine votare nelle urne. Una parola, un’idea, un senso della vita: Vaffanculo (maiuscolo). Grillo ci ha speso la vita e la reputazione. Ha persino, sessantacinquenne, attraversato lo Stretto di Messina a nuoto, proponendo una alternativa epica e meno costosa all’omonimo ponte: l’unica cosa del programma di Beppe che mi era parsa degna di ammirazione, ma anche il resto è degno di rispetto. Prima che sorgesse il fenomeno di Giorgia coi suoi Fratelli d’Italia, l’antipolitica di Grillo è stata la faccenda più creativamente politica e di massa di quegli anni.
Il comico ha scelto un tizio, una paglietta pugliese, per eseguire con qualche cognizione di congiuntivo le volontà rivoluzionarie scritte sulla pietra e simboleggiata dalle Cinque Stelle. Grillo ha mantenuto il titolo di garante del Movimento Cinque Stelle. E di che cosa può e deve garantire il garante, assaggiandolo dalla botte, se non l’autenticità del vino da mescere al popolo? Cambiando metafora, è l’astrofisico, la Margherita Hack che stabilisce se è vivo o morto il magma incandescente che costituisce l’identità, la sostanza delle cinque stelle del loro firmamento, la costellazione dell’eterno Vaffa, con i suoi principi che sono la fine del carrierismo politico con il divieto
di durare al potere per più di due mandati elettivi. Conte vuole attribuire all’apparato, che tiene in pugno, il diritto di cambiarsi l’anima come una pochette, la sua. Per Grillo non si può, è come se il Papa proponesse ai vescovi un referendum sull’esistenza o meno di Dio.
L’Avvocato del Popolo lo ha fatto di sé stesso, e ora usa i cavilli per tenersi il cavallo. Vuole confiscare la casa a chi l’ha tirata su, affittarla a basso prezzo alla sinistra per dare continuità al potere suo e della propria cricca famelica. Si è infilato insomma come il paguro Bernardo nella conchiglia lasciata un attimo sguarnita dal suo proprietario. Il parassitismo eretto a sistema, ideologia assoluta dei cavoli propri.
Si capisce da come ho rappresentato la vicenda da che parte sto. E guarda un po’ sono dalla parte opposta dei compagnucci.
Il Partito democratico ha deciso infatti che a vincere sia Mister Paglietta. E allo stesso modo stanno conducendo la narrativa i quotidiani di sinistra. Tifano smaccatamente per Conte. Io credo che ciò accada per due ragioni. Una molto pratica. Conte è l’uomo che ha guidato la coalizione giallo-rossa, lasciando ai dem e all’estrema sinistra la gestione sciagurata dell’economia e dell’informazione. Adesso sta col «Campolargo», al posto del Vaffa. Leggo il titolo de Il Fatto dedicato alla festa dell’Unità: «Gentiloni fischiato e ovazioni per Conte». Come mai? Gentiloni è amico di Renzi, Conte lo aborre, e perciò merita di essere portato in trionfo. E qui siamo alle ragioni morali per cui i militanti dem e tutta la sinistra si fanno complici del paguro Giuseppe. Come Ilaria Salis ruba la casa al proprietario. Stessi ideali.