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 2024  settembre 08 Domenica calendario

La scrittrice turca Elif Shafak e la sua democrazia minacciata

MANTOVA. Il clou del sabato sera festivaliero è l’evento con Elif Shafak. Poco prima di salire sul palco di Piazza Castello, la scrittrice racconta a Repubblica il suo nuovo libro ma soprattutto confessa di essere preoccupata per le nostre democrazie. Luminosa, parla di tutto lentamente, muovendo le mani come in una danza. Shafak vive ormai da anni in Gran Bretagna, in esilio volontario dalla sua terra d’origine dove è stata perseguitata per i suoi libri. Cose passate ma che lasciano il segno: «Quello che è successo in Turchia riguarda tutti, può succedere ovunque, anche negli Stati Uniti o in Italia. Non solo nell’Ungheria di Orbán».
Nel nuovo libro, I ricordi dell’acqua (Rizzoli), riesce a connettere attraverso una goccia d’acqua due fiumi (il Tamigi e il Tigri), un antico poema epico (Gilgamesh), diverse epoche e più storie.
Il romanzo ha una musicalità che ricorda i racconti orali.
«La cultura orale per me è essenziale e mi dispiace che non goda a volte di grande credito presso gli intellettuali, come se fosse un ricettacolo di superstizioni. Come scrittrice femminista invece cerco proprio di riportare a galla vicende nascoste, minoritarie. Lavoro un po’ come un archeologo linguista che scava negli strati della storia».
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È un modo per riallacciarsi alle sue origini familiari?
«Sono nata in Francia, ma dopo la separazione dei miei genitori sono tornata in Turchia con mia madre. La maggior parte del mio tempo da piccola lo trascorrevo con mia nonna, che non era una persona particolarmente colta ma era a suo modo una donna eccezionale, grande raccontatrice di storie e soprattutto saggia, sempre pronta a supportare l’istruzione femminile».
Il suo era un ambiente laico. Come è rimasta quando l’hanno messa a processo per un suo romanzo?
«La vicenda risale al 2006, avevo appena pubblicato La bastarda di Istanbul, dove parlavo del genocidio armeno. O meglio, erano i personaggi del mio romanzo che ne parlavano. Mi ero permessa di toccare un argomento tabù, ragione per cui sono stata accusata di aver tradito l’identità turca secondo un articolo del codice penale. Era la prima volta che si portava in tribunale un romanzo. Il mio avvocato si è trovato nella condizione assurda di dover difendere i personaggi del libro. Nel frattempo, fuori dall’aula, i nazionalisti bruciavano copie nelle strade».
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È stata anche accusata di oscenità.
«Due anni dopo, per aver scritto di violenza di genere e delle spose bambine. Ancora adesso in Turchia un matrimonio su tre è con ragazze minorenni».
Come si sente quando osserva la Turchia di oggi?
«Mi piacerebbe che il mio Paese fosse una democrazia e mi si spezza il cuore nel vedere che continua a fare passi indietro. Penso alle donne soprattutto, che in questa situazione sono le prime a rimetterci, le prime a perdere i diritti. Ma se è vero che questo stato di fatto mi rende pessimista, quando penso alla gente, ai giovani, alle energie femminili sono portata a sperare».
In che modo con Erdogan si stanno erodendo i diritti?
«Una democrazia non è tale solo per via delle elezioni. Lo spirito democratico ha bisogno di altro, di istituzioni che proteggono le minoranze e di libertà di espressione. Tutto ciò in Turchia si è rotto. Gli attivisti per i diritti umani sono dovuti andare via, non si contano i professori universitari che hanno perso il lavoro. A risentirne è l’intera società civile. Ma attenzione, queste forme di autoritarismo possono presentarsi anche altrove».
Le democrazie occidentali non hanno abbastanza anticorpi?
«Alla fine degli anni Novanta nel mondo accademico si usava distinguere tra paesi “solidi”, intendendo le democrazie forti, e paesi “liquidi”, le democrazie instabili. Oggi siamo tutti immersi in un mondo liquido, per usare un’espressione di Bauman».
Sono caduti in disgrazia anche gli intellettuali.
«È una situazione strana. In Turchia sono perseguitati e nel Regno Unito, dove vivo, non vengono più rispettati. Anche il termine “intellettuale” non piace più. La società dell’informazione ha fatto passare in secondo piano la conoscenza e la saggezza. E invece proprio su questi aspetti dovremmo spendere più tempo. Accennava agli anticorpi delle democrazie: sono qui, sono festival come questo, è la letteratura, il giornalismo lento. In una parola: gli anticorpi sono le connessioni umane».
Le emozioni però sono anche gli strumenti dei populisti.
«Ma certo, possono essere usate in tanti modi, viviamo nell’età dell’ansia d’altra parte. Fa male però constatare che i demagoghi le sanno sfruttare meglio della controparte. I liberal e la sinistra dovrebbero non lasciarsi sfuggire la possibilità di connettersi alle emozioni sane delle persone».
È quello che sostiene la politologa Chantal Mouffe.
«Apprezzo molto Chantal Mouffe, sono completamente d’accordo con lei. E in questa operazione di riscoperta del nostro nucleo umano l’arte ha un ruolo centrale: ha il grande potere di trasformare le emozioni in energia pura. Toni Morrison raccontava che quando si arrabbiava le bastava mettersi alla scrivania e iniziare a scrivere».
Qual è la cosa che la spaventa di più?
«L’apatia. Non provare nulla».