Corriere della Sera, 8 settembre 2024
Eutanasia, per Almodóvar è un diritto
VENEZIA «Il film parla di una donna che sta morendo in un mondo agonizzante. E di chi decide di condividere con lei i suoi ultimi giorni. Accompagnare un malato terminale, saper stare al suo fianco, è una delle grandi qualità che possediamo. Dire addio a questo mondo in modo pulito e con dignità è un diritto fondamentale. Non è politico ma umano. So che va contro ogni credo che vede Dio come unica fonte di vita. Chiedo ai politici di rispettare e di non intervenire nelle decisioni individuali. L’essere umano deve essere libero di vivere e di morire quando la vita è insopportabile». L’ultima volta al Lido, nel 2021 con Madre paralelas, era uscito a mani vuote. Con The Room Next Door (in sala dal 5 dicembre) Pedro Almodóvar conquista il suo primo Leone (mai nemmeno una Palma d’oro), e una standing ovation entusiasta. «In Italia mi sento molto amato».
Perché una forma così essenziale per trattare un tema scottante come l’eutanasia?
«Volevo che non ci fosse sentimentalismo né melodramma, che fosse contenuto. Profondo e austero nello stesso tempo. Martha, il personaggio di Tilda, è una donna padrona della sua vita. Arriva a questa scelta attraverso un atto pieno di vitalità. Negli ultimi anni, a partire da Julieta, la mia narrativa sta cambiando, direi meno barocca. Riflette anche la mia voglia di cambiare, questo è il mio ventitreesimo film».
Un film sulla morte ma vitale, ha detto. In che senso?
«Tratta di morte sì, ma in modo luminoso, all’aria aperta, a contatto con la natura, con lei guidata dal desiderio di godere ogni attimo che gli resta finché non decide di partire. Il personaggio di John Turturro evoca l’apocalissi, il cambiamento climatico che minaccia il pianeta. E Ingrid, Julianne Moore, replica che si può vivere in una tragedia. Credo che l’ottimismo sia una forma di resistenza».
Come le scrisse la sua amica Almudena Grandes. Qui parte da un romanzo di Sigrid Nunez, cita Joyce, una delle protagoniste fa la scrittrice.
«Il film mette la parola al centro della narrazione e del messaggio. Era un rischio, ne ero cosciente, dovevo evitare il rischio di eccesso di teatralizzazione. Ma sono due donne che parlano tra loro, si raccontano l’una con l’altra e affrontano temi molto attuali».
Luce
Questo è il ventitreesimo titolo. Ho voluto raccontare la morte
in modo luminoso
Si è sorpreso quando Tilda Swinton l’ha descritta come una sorta di cugino spagnolo negli anni in cui lavorava con Derek Jarman?
«Molto. Ero io che guardavo a loro con ammirazione. Non ero consapevole che in quel momento, dopo 40 anni di sequestro sotto la dittatura, il mondo ci guardasse. Sono arrivati i media stranieri incuriositi dalla movida. Ma la Spagna aveva cominciato a cambiare anche prima della morte di Franco, a metà degli anni ‘70, con molti artisti della controcultura che lavoravano e rischiavano di essere arrestati dalla polizia».
Oggi come sta la Spagna?
«È un paese molto polarizzato in cui l’estrema destra mostra il suo volto più nero. E usa un linguaggio di odio, selvaggio, basato su fake news. Non sono un attivista ma oggi sento che c’è un pericolo maggiore di perdere tutte le libertà e i diritti che abbiamo ottenuto dopo la fine del franchismo. Mi vergogno che si possano trattare i bambini immigrati come criminali, che la destra di Vox invochi la Marina per fermarli. Occorre compensare il linguaggio di odio dell’estrema destra che contamina la vita spagnola. Perché paura e la democrazia non possono essere combinate. È un ossimoro».
Si sente meno libero?
«Io personalmente no. Ho sempre fatto i film che volevo, quelli pazzi degli anni Ottanta che hanno fatto scandalo. Oggi mi dicono che opere come L’indiscreto fascino del peccato sarebbero più difficili da fare, che potrebbero offendere la sensibilità dei cattolici. Ma penso che la cosa importante per noi cineasti sia di non autocensurarsi mai».