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 2024  settembre 08 Domenica calendario

Luca Carboni si confessa a Walter Veltroni sul tumore che lo ha bloccato


L uca Carboni si è sottratto, per due anni, a tutti i riflettori. Lo ha fatto per affrontare un male, il tumore, che oggi sente di poter raccontare.
«Viviamo in un mondo in cui tutto è comunicato, sempre. Io invece ho seguito il mio istinto, il mio carattere. Mi sono messo da parte, ho staccato ogni contatto con i social, mi sono concentrato su quello che mi stava succedendo. A marzo del 2022 mi è stato diagnosticato un tumore al polmone. Un po’ di tosse che non passava, la decisione di fare una lastra. Uno choc.
Sono rimasto senza parole, quella malattia sta nella nostra vita, ma pensi che a te non toccherà mai. Improvvisamente tutto è cambiato. Stavo registrando un album nuovo, avevo già definito dieci pezzi tra cui il singolo “Il pallone” e un altro che sarebbe dovuto uscire quell’estate, una canzone, a cui tengo moltissimo, che avevo scritto nel 1986 per proporla a Vasco e che poi avevo deciso di incidere personalmente:”Rimini d’estate”.
Avevo previsto l’album e poi il tour. Invece, in pochi minuti, tutto è cambiato. Dalla scelta dei brani sono passato alla scelta delle terapie per sopravvivere. Il tumore era grande, difficile da operare. Lo staff di oncologia del Sant’ Orsola- guidato dal Primario Prof. Andrea Ardizzoni, con la collaborazione dello pneumologo Piero Candoli e del chirurgo Piergiorgio Solli- ha avviato subito una massiccia cura di chemioterapia. Il tumore si è ridotto molto e ad agosto ha consentito l’operazione per asportarlo. Per fortuna non c’erano metastasi e dopo l’intervento abbiamo continuato con l’immunoterapia. Dopo due anni posso dire di essere tecnicamente guarito anche se, con questo tipo di malattia, questa parola ha un significato fragile.
Questa esperienza mi ha messo in contatto con tante persone. Ho frequentato oncologia, ho vissuto le storie di tanti malati.
Il tumore non è un’esperienza individuale, ma collettiva.
Non puoi sentirti guarito se non è guarito l’altro, la persona che avevi a fianco mentre facevi le flebo. In questi anni ho pregato per me, ma anche per chi condivideva il mio stesso percorso. Come un mio amico dell’isola d’Elba, che ha scoperto il mio stesso male ma non ce l’ha fatta.
Io vengo da una famiglia cattolica che mi ha educato a tenere sempre aperta la finestra sul divino. Poi, per un certo periodo, ho chiuso quella finestra che poi si era di nuovo spalancata da adulto, ben prima della malattia. Questa esperienza ha rafforzato la mia convinzione spirituale.
Credo, e non ho ragione per nasconderlo.
Dalla notizia, dalla lastra e, soprattutto, dallo sguardo del radiologo, mi ero convinto di avere poco tempo. Ho pensato alla morte, per la prima volta, come a una possibilità concreta. Ma devo alla scienza medica il ritorno, assai presto, di una ragionevole speranza. Non ci credevo, immaginavo fosse una necessaria consolazione, eppure mi sono aggrappato a quel barlume di luce. Ho pensato due cose: che dovevo fidarmi dei medici e affidarmi al destino, combattendo a modo mio. Comunque, anche quando vedevo la fine come eventualità possibile, mi sentivo felice. Ho fatto una vita bella, piena di luce, di gioie, di amori. Il mio percorso è stato faticoso e carico di soddisfazioni. Ho visto tante vite spezzate troppo presto e in questi anni ho pensato che non avevo ragioni per non sentirmi in credito con la vita.
Mi è dispiaciuto non spiegare la ragione del mio sparire, del mio recidere ogni rapporto con l’esterno. Sono stato due anni a combattere con questo ospite inatteso e pericoloso. Ogni giorno volevo fare un passo avanti. Il destino non è solo fato, ma il prodotto, anche, della nostra volontà, della nostra energia. Io volevo vivere e volevo sentirmi, un giorno, “guarito”. Ho sopportato la chemio, erogata con dosi massicce, molto bene, anche grazie ai consigli del mio medico omeopata. E lo stesso con l’immunoterapia. In definitiva ho vissuto una esperienza drammatica senza provare dolore. Non mi sono piegato alla disperazione, che pure conviveva con me, ho combattuto. Ho smesso di fumare, ho camminato tanto. Andavo sull’Appennino e cercavo paesaggi che rendessero ancora più forte il mio rapporto con la vita. La natura mi ha aiutato. L’arrivo della neve, l’irrompere della primavera. Trovavo sentieri impervi e fantastici che mi ricordavano la bellezza delle cose del mondo. Erano iniezioni di fiducia, erano stimoli a non mollare. Poi mi ha aiutato molto la pittura, che è sempre stata la mia altra passione. Il mio rientro nel mondo avverrà a novembre nella mia Bologna con una mostra, curata da Luca Beatrice e prodotta da Elastica, con i quadri, i disegni, lo story board del primo video che ho fatto e i block notes sui quali ho gli appunti di ogni mio album.
Coinciderà con i quarant’anni, mamma mia, dal mio primo disco. Musica nuova non ne ho scritta, ma per la prima volta, dipingendo, ho usato gli audiolibri. Ho ascoltato tutte le opere di Natalia Ginzburg, di Grazia Deledda, del mio adorato Simenon, ho “riletto” i “Promessi sposi”. E così mi sono venuti degli spunti per testi possibili e anche una musica, per una canzone. Per adesso sono disordine che però, ora che sto bene, posso ricomporre. La mia vita si era slegata, aveva perso la certezza del tempo, la luminosità della prospettiva. Ora posso ricomporla e comincerò a farlo con le parole e le note. Non ti sembri paradossale, ma la malattia, sovrastando ogni impegno, mi ha dato una sensazione di libertà. Anche creativa. Non avevo scadenze, vincoli. Non dovevo rendere conto di lentezze e ritardi a nessuno. Ora ho voglia di riaprire la porta della mia vita, di ritrovare le persone. Dopo la mostra rimetterò mano alle canzoni che stavo registrando quando mi hanno scoperto il tumore, ne aggiungerò altre e poi forse farò un tour. L’ultimo è stato nel 2019, ho bisogno di ritrovare ciò che insieme ai paesaggi, più mi ha dato la forza di contrastare la malattia: l’incontro con gli altri.
Tu mi chiedi di tre frasi della mia musica: “Luca è a casa che sta male” “Ci vuole un fisico bestiale” “Questa vita è bellissima anche se talvolta ci tira giù”. Nessuna profezia, nessun presentimento. Sono una persona timida, forse malinconica e la mia musica, parole e note, mi assomiglia. Amo la bellezza della vita, la riconosco, ma non so fingere, quando non la incontro: Narciso e Boccadoro, spirito e sensi. Anche in questi due anni, soffrendo e avendo paura, ho provato momenti di grande gioia, persino di felicità.
Sono sempre stato, per scelta, agli angoli della vita. Non sono mai stato un protagonista, uno di quelli che voi a Roma chiamate “caciaroni”. Da ragazzino dicevo: “Non cerco il divertimento, cerco la felicità”. Quando sono usciti i primi dischi i critici osservarono che era assurda tanta malinconia, nei rombanti anni ottanta. Nel 1984 io scrissi “Ci stiamo sbagliando” perché sentivo che in parte quell’euforia era effimera, edonistica, in fondo vuota.
Mi è sempre piaciuto contaminare reale e fantastico. Come la scopa in volo di “Miracolo a Milano”. Non mi piacciono né il pugno né la carezza. Mi piacciono le altre persone, questo sì. Per questo ho fatto tanti duetti, ho partecipato a molti progetti con altri artisti, anche non conosciuti. L’ho fatto, lo farò, per curiosità, per disponibilità e perché penso che la vita non sia la gelosa difesa della propria identità, ma la condivisione, l’accoglienza, la conoscenza.
In fondo io sono figlio di una generosità e di una curiosità, quella di Lucio Dalla. Avevo venti anni e mi ero convinto che, per arrivare agli altri, più che mandare audiocassette che nessuno avrebbe ascoltato, fosse più efficace l’impatto della pagina scritta. Così misi i miei testi in una busta per Ron e la consegnai a Vito, il titolare dell’osteria di Bologna dove allora andavano tutti i cantanti che mi piacevano.
Quella sera a un tavolo c’erano Lucio e gli Stadio che discutevano dei testi del primo album del gruppo. Io mi fermai a guardarli, dalla vetrina del ristorante. Vidi Lucio che prese la busta, la aprì, cominciò a leggere e poi distribuì i fogli agli altri. Sentii che disse “Cazzo, belli”. Io avevo messo il mio numero di telefono di casa sulla busta e vidi Lucio che si alzò e prese l’apparecchio del ristorante. Non sapevo cosa fare, ma mi feci coraggio e rientrai proprio mentre mia sorella gli stava dicendo che io dovevo essere lì. Gli battei sulla spalla e lui, divertito, mi squadrò sibilando “Pensavo fossi un adulto…”. Mi fecero sedere al loro tavolo, a me sembrava di sognare.
Poi andai in studio e, su indicazione di Lucio, feci sentire agli Stadio come avrei cantato dei brani che avevo scritto per loro. Dalla disse al tecnico di registrarli e poi me li fece ascoltare dalle casse dello studio. Io la mia voce, al massimo, l’avevo sentita nel walkman...
”Sembri un po’ De Gregori” mi disse e per me, che ho sempre amato Francesco, era un complimento immenso. Mi vergognavo però a cantare, non ho mai avuto la sfrontatezza del frontman, non era il mio approccio alla vita. Non amo i vincenti, perché non mi piace la confidenza con il successo, la convinzione di essere superiori ad altri. Ho venduto, nel tempo, cinque milioni di dischi ma ho sempre pensato che, in fondo, fosse un incidente di percorso.
Quando tornerò sul palco, la prima canzone che farò sarà “Primavera”. È la canzone di una stagione attesa, che torna ogni volta diversa. Mi piacerebbe che la prima data fosse a Bologna, la mia città. Bologna non è solo una città, è un modo di essere, la tua educazione, i tuoi tempi, il tuo modo di guardare il mondo. Bologna è una regola ma, soprattutto, è un’occasione.
Mi chiedi se ho mai pianto, in questi due anni. No, mai. Ma succederà presto. E sarò felice di farlo».