Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 08 Domenica calendario

I misteri irrisolti del caso Calipari

La sera del 4 marzo 2005, a Baghdad, il funzionario del Sismi (l’allora Servizio segreto militare) Nicola Calipari fu ucciso dai colpi sparati da un posto di blocco dell’esercito statunitense installato lungo la strada che conduce all’aeroporto. Calipari, giunto in Iraq poche ore prima, aveva appena preso in consegna la giornalista de il manifesto Giuliana Sgrena, liberata quel pomeriggio dopo essere stata rapita il 4 febbraio da un’organizzazione della jihad islamica, all’uscita di una moschea. Il processo contro il soldato americano che da quel posto di blocco sparò sull’auto dove viaggiava Calipari, richiesto dalla Procura di Roma, non si è mai celebrato perché prima la Corte d’assise poi la Cassazione hanno stabilito che il giudizio spettava esclusivamente alle autorità statunitensi. Le quali hanno dichiarato i propri militari esenti da ogni responsabilità.
D opo un mese di contatti e trattative riservatissime, l’agente segreto Nicola Calipari era giunto a meno di un chilometro dal traguardo, in macchina con l’ostaggio liberato e un aereo che li attendeva per riportarli in Italia. Tutti sani e salvi a bordo della Toyota Corolla guidata nell’oscurità di Baghdad dall’altro agente Andrea Carpani. Missione quasi compiuta, mancava l’ultimo tratto di strada.
L’autista procedeva guardingo parlando al telefono col capocentro del Servizio che li aspettava in aeroporto, quando all’improvviso una luce artificiale e alcune raffiche di mitra squarciarono il buio e bloccarono la Toyota, mandando in fumo la missione. Almeno per metà: la donna appena liberata riuscirà a tornare a casa, sebbene con qualche ferita, come Carpani; Calipari no, ucciso da un proiettile alla testa.
«Fuoco amico», si dice in questi casi. A sparare furono infatti gli americani del Blocking position 54, un posto di blocco volante piazzato sulla Route Irish.
Per le autorità statunitensi non ci sono mai stati dubbi: «Il personale ha agito in conformità con le norme di ingaggio per neutralizzare il veicolo percepito come una minaccia». Aggiungendo «cordoglio e rammarico» per l’accaduto. Tuttavia le indagini svolte dalla magistratura italiana sono approdate a un processo contro lo sparatore, il mitragliere Mario Louis Lozano accusato di omicidio volontario, che non s’è potuto celebrare. Lasciando aperti dubbi e interrogativi sulla versione fornita dagli Usa. Paese e governo alleato dell’Italia, certo, che però in quel frangente, nell’Iraq occupato del dopo Saddam Hussein, sosteneva posizioni molto diverse (se non contrapposte) sui sequestri di persona.
Divergenze sui riscatti La giornalista del quotidiano il manifesto Giuliana Sgrena era stata liberata dietro il pagamento di un sostanzioso riscatto da parte del governo di Roma (guidato in quel momento da Silvio Berlusconi), come aveva già fatto per altri ostaggi. Realtà mai ammessa ufficialmente, ma nota a tutti. Pure agli Stati Uniti, fermamente contrari a finanziare il terrorismo jihadista con questo metodo, sebbene molti ritengano che anche loro abbiano pagato per la vita dei propri connazionali.
L’omicidio di Nicola Calipari, poliziotto in servizio al Sismi, il servizio segreto militare di cui era divenuto capo del Dipartimento Ricerche, è stato commesso da un militare americano di origini italiane, considerato dagli Usa immune da ogni colpa. Sulla base di una ricostruzione che non coincide con i dati acquisiti nell’inchiesta condotta dalla Procura di Roma. Ecco perché su quella morte restano ombre che dopo quasi vent’anni non si sono dissipate.
La versione statunitense è fin troppo semplice: una macchina senza scorta né segnali di riconoscimento di alcun tipo procedeva a velocità sostenuta, che non diminuì dopo l’accensione del faro che segnalava il posto di blocco; il mitragliere Lozano intimò un «alt» non rispettato, sparò i primi colpi di avvertimento con una mano mentre con l’altra teneva alto il riflettore, ma la macchina non rallentava; a quel punto, temendo un’autobomba lanciata contro i soldati, Lozano lasciò cadere il faro e con entrambe le mani sparò sul vano motore per fermarla. Accidentalmente, i colpi uccisero Calipari, che s’era gettato su Sgrena per proteggerla, e ferirono gli altri due italiani.
Conclusioni che contrastano anzitutto con le dichiarazioni dell’agente Carpani. Il quale ha sempre sostenuto di andare piano, tanto che quando frenò di colpo la pistola poggiata sul sedile del passeggero non cadde a terra; di tenere accesa la luce di cortesia della Toyota per non destare sospetti; che il riflettore s’illuminò contemporaneamente agli spari; che non ci furono raffiche di avvertimento prima di quelle letali per Calipari. Dichiarazioni che combaciano con i rilievi eseguiti sulla Toyota Corolla dopo che è stata rispedita in Italia (un unico proiettile colpì il vano motore), seppure in condizioni diverse da quelle in cui fu presa in consegna dalle forze Usa: il lunotto posteriore era interamente infranto, mentre da alcune fotografie scattate subito dopo «l’incidente» risultava soltanto un foro centrale.
Strane presenze Ma soprattutto non è mai stato spiegato perché il Blocking position 541, ufficialmente installato per sorvegliare sul passaggio dell’ambasciatore statunitense John Negroponte, fosse ancora attivo nonostante il diplomatico fosse arrivato da tempo a destinazione. Il responsabile aveva chiesto ai superiori di smontare, e gli fu risposto di attendere ancora. Dopo circa mezz’ora giunse la Toyota con gli italiani a bordo.
Calipari era atterrato a Baghdad nel pomeriggio per prendere in consegna Giuliana Sgrena, ma rispetto alle indicazioni ricevute dovette aspettare circa mezz’ora (lo stesso tempo di prolungamento del posto di blocco) sul luogo concordato per l’appuntamento, prima di essere avvicinato da un pick-up che condusse lui e Carpani nel vicolo dove la giornalista italiana era stata lasciata su un’altra auto per essere presa in consegna dai suoi liberatori.
Durante l’attesa Calipari ebbe una telefonata piuttosto agitata con l’Italia, nonché l’indicazione di recarsi in un posto dove l’agente Carpani inviò un suo informatore locale; quello tornò dicendo che aveva visto in giro uomini armati non identificati, e nel timore di una trappola lui e Calipari non si mossero. Successivamente giunse il furgoncino che li condusse da Sgrena, e quando ripartirono Carpani notò un uomo che stava telefonando. S’insospettì, avvisò il suo capo, ma ormai non restava che arrivare il più in fretta possibile all’aeroporto.
Chi fosse quell’uomo non s’è mai scoperto, né se la sua presenza fosse legata o meno alla liberazione della giornalista. Un anno dopo, un iracheno detenuto per il sequestro di una cittadina inglese rapita e poi uccisa, ha raccontato di aver saputo che gli stessi sequestratori di Sgrena, a rilascio avvenuto, avvisarono gli americani di un’autobomba in arrivo presso un loro posto di blocco. Un falso orchestrato per innescare il «fuoco amico» contro la macchina degli italiani, in modo da conseguire un doppio successo: riscatto ottenuto e equipaggio aggredito dagli alleati.
Il processo negato Era la confessione di un’ipotetica trappola tutta da verificare. Il pubblico ministero Erminio Amelio, titolare dell’indagine italiana, ci ha provato attraverso una rogatoria inviata alle autorità statunitensi che avevano il controllo dell’Iraq, per interrogare il detenuto; rimasta senza risposta, come molte altre.
Ai lavori della commissione militare Usa che esclusero ogni responsabilità, anche disciplinare, dei soldati americani, furono ammessi due rappresentanti italiani che non firmarono la relazione finale, non condividendone il contenuto. E quando i consulenti della Procura di Roma poterono esaminare la Toyota Corolla restituita all’Italia, conclusero che i militari americani non avevano rispettato le regole di ingaggio da loro stessi adottate. Il pm Amelio decise allora di notificare all’indagato Lozano la chiusura delle indagini per poterlo processare, ma l’unica risposta arrivata dal Dipartimento di Giustizia statunitense fu che in base alle loro indagini tutto era già stato chiarito. Con un ultimo avviso: «Non essendo in grado di fornire ulteriori informazioni riteniamo che questa risposta sia quella definitiva».
«Il caso è chiuso»Caso chiuso, insomma. Un po’ come ha risposto l’Egitto sul conto degli imputati del sequestro e dell’omicidio di Giulio Regeni.
Il processo a Lozano s’è ugualmente aperto nel 2007, in sua assenza, ma la corte d’assise di Roma l’ha subito interrotto per «difetto di giurisdizione», ritenendo che toccasse eventualmente agli Usa giudicare l’imputato. Il governo italiano, all’epoca guidato da Romano Prodi, si era costituto parte civile sostenendo le tesi della Procura in favore del giudizio in Italia. L’anno successivo in Cassazione, quando a palazzo Chigi era subentrato un nuovo governo Berlusconi, l’Avvocatura dello Stato cambiò idea rimettendosi al parere della Procura generale. Che si schierò contro il processo invocando per l’imputato Lozano la «immunità funzionale»: agiva per conto di uno Stato che in quanto tale non si può giudicare. E così ha stabilito la Corte suprema, mettendo una pietra tombale sulla possibilità di scoprire che cosa accadde la sera del 4 marzo 2005 sulla strada verso l’aeroporto di Bagdad.
Nicola Calipari è stato insignito della medaglia d’oro al valor militare, e la Toyota sulla quale fu ucciso è oggi esposta all’ingresso della sede dell’Aise, l’Agenzia informazioni e sicurezza esterna che ha rimpiazzato il Sismi.