Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 07 Sabato calendario

Sangiuliano, un gaffeur che inseguiva l’egemonia della destra

Un mucchietto di cenere e degli sghignazzi di sottofondo. Questo resterà, se va bene, dell’avventura di Gennaro Sangiuliano nelle tetre stanze di via del Collegio romano, dove alla metà del Seicento visse e operò il padre gesuita Athanasius Kircher dando vita in quel blocco di palazzi a un alone di mistero assai più duraturo di qualsiasi tragicomico fallimento ministeriale.
Scienziato esoterico e sospetto alchimista, non lontano da dove Maria Rosaria Boccia è andata esercitando il suo fascino, quattro secoli fa Kircher aveva impiantato un impressionante laboratorio-museo con stanze astronomiche, esperimenti di palingenesi vegetale, animaloni impagliati da tutto il mondo tra cui un armadillo che fu utile a Bernini per la Fontana dei fiumi di piazza Navona. Ma quel che meglio si adatta alla buffa e rovinosa caduta dell’ignaro ministro della Cultura era una certa lanterna magica, che il misterioso gesuita aveva costruito con le sue mani per mostrare, nella penombra, che ogni cosa può essere vista non solo sospesa a mezz’aria, ma alla rovescia, insomma una degna rappresentazione del potere e della sua impalpabile finitezza.Entrato lì due anni orsono, Sangiuliano si disse «onoratissimo», ma volle aggiungere che la cultura era «sempre stato il mio alimento», e giù col fatto che possedeva 15 mila volumi, «e io stesso ne ho scritti 18», concludendo quindi con un tweet in cui rendeva noto che il suo motto, invero lunghetto, era la canzone civile di Leopardi All’Italia :“O patria mia vedo le mura e gli archi/ e le colonne e i simulacri e l’erme/ torri degli avi nostri,/ ma la gloria non vedo...”. Quest’ultima, in effetti, non si può dire che Genny l’abbia proprio riscattata, ma che gli dici a un tipo così? In questi casi l’Urbe è spietata e per addomesticarne gli istinti belluini forse vale solo rifugiarsi in quel versetto dell’ E cclesiaste: vanitas vanitatum et omnia vanitas. Ma lui, benedett’uomo, ha fatto esattamente il contrario, come del resto dimostrano una ponderosa ancorché sgualcita rassegna stampa e un cospicuo file zippato e ricolmo di meme.
Ora sarebbe un peccato inchiodare il personaggio alla filastrocca di spropositi e gaffe che dagli e dagli ne hanno fatto quasi un soggetto d’intrattenimento: Dante fondatore del pensiero di destra, i libri del Premio Strega votati senza averli letti, e Times Square a Londra, e Colombo dopo Galileo, e i 250 anni della città di Napoli, e chissà quali altre dimenticabili defaillance che lo spinsero a reagire promettendo una specie di bibliografica rappresaglia sugli errori dei suoi tanti, anzi troppi criticoni. Più arbitrario è tentare di mettere in relazione quei continui incidenti con il motore psicologico che li determinava. Un’inquietudine da ex giovane missino bullizzato, un vuoto schermato dalla più inconfondibile retorica destrorsa, una smaniosa volontà di accreditarsi presso i suoi avversari che lo portava a strafare e quindi a sbagliare. Cosa che può sempre capitare a tutti, ma che in lui – «stamattina ho ripreso fra le mani un libro...», «se lei avesse un po’ di memoria storica saprebbe che io...» – si caricava ogni volta di vana ridondanza, anacronistica prosopopea, pomposa e compiaciuta considerazione di sé. Insomma, quel percepibile armamentario che per sua natura, tanto a Napoli quanto a Roma, inesorabilmente si chiama dietro la pernacchia.Vero è che Giorgia, cui Sangiuliano ha dedicato l’ultima agghindatissima edizione della biografia di Prezzolini, gli aveva affidato un compitino da niente. Smuovere la pretesa “cappa culturale”, cambiare la cosiddetta “narrazione”, promuovere la contro-egemonia, rivendicare l’identità nazionale, costruire un nuovo immaginario, alè! Ora non s’intende qui entrare nel merito del programma, ma proprio perché l’Italia è l’Italia, patria dello scherno, ci si limita a chiedersi come diavolo avrebbe potuto farlo un tipo che amava molto più se stesso della cultura e che per questo faceva irrimediabilmente ridere, come fosse uscito da un fumetto o da un cartoon.
Non si vuole qui mancare di rispetto perché chiunque si mette in evidenza rischia di sembrare buffo, ma la mostra su Tolkien rischiava fin dall’inizio di assomigliare a una palese piaggeria, così come la richiesta di menzionare le foibe al festival di Sanremo suonava una ripicca, per non dire il capolavoro del decreto legge ad personam per impadronirsi della Rai sistemando Fuortes a Napoli, con l’inevitabile tarantella che ne è seguita. Per fortuna, tra i Grandi Eventi, si è fatto a meno della scazzottata tra Zuckerberg e Musk cui il ministero, per rapinosa filantropia, avrebbe concesso il Colosseo o magari Pompei. E pensare che prima dell’arrivo di Boccia al Collegio romano, sotto lo sguardo severo di padre Athanasius, il ministro già disponeva di ben 16 consiglieri. Vai a sapere se Alessandro Giuli, preso atto del mucchietto di cenere, se li terrà. Ma forse è meglio che al più presto si faccia tagliare quei lunghi favoriti o basettoni che gli adornano le guance: vanitas vanitatum, infatti, e la lezione che ne consegue.