Avvenire, 7 settembre 2024
Parlano di pace, ma mentono tutti
Parlano di pace, ma – consapevolmente o meno – mentono tutti.
Non si vedono infatti grandi differenze fra i protagonisti delle due guerre che stanno insanguinando l’Europa e il Medio Oriente. Da Putin a Zelensky, da Netanyahu a Yahya Sinwar, giù giù fino a Antony Blinken, al ministro della sicurezza nazionale israeliano Itamar Ben-Gvir, ai mediatori di Egitto e Qatar, tutti trascinati in un teatro delle ombre in cui l’unico punto in comune è uno solo: guerra ad oltranza. La proclama con brutale colpo di spugna Zelensky liquidando con piglio da autocrate mezzo governo e sconfessando implicitamente l’operato dei suoi strateghi, responsabili di una vittoria di Pirro nell’oblast di Kursk che non è servita ad arginare la metodica avanzata delle forze russe nel Donbass, obbligandolo a una tragica adesione mimetica alle scelte dell’autarca che gli ha invaso due anni e mezzo fa il Paese: stesse purghe (da Prigozhin ai vertici militari, ai ministri riottosi Putin ha fatto suo il motto staliniano Net cheloveka, net problem – via l’uomo, via il problema), stessi metodi. «Mosca – chiarisce il portavoce del Cremlino Peskov – completerà l’operazione militare speciale quando i suoi obiettivi saranno raggiunti.
Dobbiamo salvaguardare le nostre generazioni future, garantire una nuova architettura di sicurezza nel nostro continente. Le tempistiche non hanno importanza in questa questione, anche se naturalmente sappiamo tutti che finire prima è meglio che farlo dopo». Ma quando arriverà questo “dopo”?
Per Zelensky non ci sono scadenze in vista. Se non il mito millenaristico di una luminosa vittoria sul campo che spetta solo a lui, l’unico che nel suo inquietante solipsismo può garantirla, apparentemente indifferente al moltiplicarsi del numero di soldati mandati a morire e nello stillicidio delle belle città ucraine, Leopoli, Odessa, Kharkiv, Kiev, occupato com’è nell’incessante shopping di aiuti e armamenti che un’America in grande difficoltà diplomatica e un’Europa frastornata e assai poco omogenea continuano a fornirgli. Il gelo fra Washington e Netanyahu non impedisce al premier israeliano di prolungare ad libitum la guerra. «Purtroppo – conferma – non c’è alcun accordo in preparazione, non siamo affatto vicini a un’intesa». A fornirgli la miglior giustificazione è stato il ritrovamento dei corpi di sei ostaggi israeliani, corredati dal rifiuto di Hamas concludere le ostilità finché l’Idf non abbandonerà il controllo del Corridoio Filadelfia, la linea che separa il confine sud di Gaza dall’Egitto. E poco importa che il segretario di Stato americano Blinken e il consigliere per la sicurezza nazionale John Kirby assicurino che il novanta per cento dei punti in discussione fra Israele e Hamas sia stato risolto e manchino solo pochissimi – ma decisivi – ritocchi: la guerra di fatto continua. E qui c’è un altro mito da sfatare, che tuttavia affascina e condiziona oltre misura analisti e politologi di tutto il mondo: il “fattore 5 novembre”, ovvero il giorno in cui sapremo chi uscirà vincitore dal confronto fra Donald Trump e Kamala Harris. «Io voto per la Harris e la sua risata contagiosa – motteggia Putin dal forum di Vladivostok -: il nostro favorito era Biden, ma è stato eliminato dalla gara». Chi invece non vede l’ora di rivedere “face to face” il ciuffo arancione di The Donald è Netanyahu: con Biden le cose vanno malissimo, con la Harris potrebbero perfino peggiorare: una californiana radical chic (il termine lo inventò Tom Wolfe nel 1970 dopo aver assistito a un party a sostegno dei Black Panthers a casa del compositore Leonard Bernstein) difficilmente abbandonerebbe la larvata è già espressa simpatia per la questione palestinese. Ciononostante tutti gli attori di questo teatro di orrori si appellano a quella fatidica data di novembre.
Come dire: finché c’è guerra c’è speranza.