La Stampa, 7 settembre 2024
Durante il suo mandato Sangiuliano non ha fatto nulla: solo nomine grottesche
Non è carino maramaldeggiare, uccidendo un ministro morto. Ma, nell’ora dell’addio, quando la commedia all’italiana (nel caso, “L’onorevole con l’amante sotto il letto” di Mariano Laurenti, 1981, con Lino Banfi e Janet Agren) sfocia in una sceneggiata napoletana lacrimogena e vittimista, bisogna ricordare che Genny-la-gaffe è stato un pessimo ministro della Cultura. Era l’uomo che doveva sottrarla all’egemonia della sinistra, vincere la battaglia delle idee e, en passant, trovare un posto a un po’ di amici, famigli e camerati. Di queste missioni ha compiuto soltanto l’ultima. In nessun campo come quello della cultura si è rivelato quanto fosse truffaldino quello slogan, “Pronti”, che dominava i manifesti elettorali di Giorgia e i suoi fratelli. Non erano pronti a nulla. Ma come? La destra accede al potere culturale dopo ottant’anni di traversata del deserto, e non ha una sola idea forte, nuova, coraggiosa, perfino spiazzante? Niente di niente: la priorità, si è poi scoperto, era dare un programma tivù a Pino Insegno.Il problema di Genny non sono state soltanto le gaffe a ripetizione, anche se è evidente che un ministro (della Cultura, poi) che dice spropositi ogni volta che apre bocca era un ministro dimezzato già prima che la signora Boccia lo rendesse anche ridicolo. È stata l’idea che l’egemonia si conquistasse semplicemente sostituendo agli uomini della sinistra e di «un certo sistema politico mediatico» (così Genny nel bollettino della disfatta) quelli della destra, che peraltro di presentabili ne ha pochi. Passare dall’amichettismo di sinistra a quello di destra non è fare una politica culturale, è gestire un ufficio di collocamento. E poi Genny non ha saputo risolvere il vero grande rebus della sua parte politica. Questa destra così identitaria ha un problema di identità: la sua. Non ha mai chiarito che destra sia, a quale delle sue molte anime faccia riferimento, che “tradizione” voglia incarnare e continuare. Da qui l’idea ridicola che la sua cultura sia, tout court, quella della Nazione, da Dante “di destra”, una delle barzellette più divertenti di Genny, all’annessione di PPP e di Gramsci.In sostanza, pur agitandosi moltissimo, Genny ha fatto, e male, dell’ordinaria amministrazione. Ha portato avanti progetti che già esistevano, non ne ha elaborati di nuovi, ha riformato o sconvolto, a seconda dei punti di vista, la macchina ministeriale, e ha fatto tante nomine, per lo più sbagliate e alcune grottesche. È curioso, poi, che lui e i suoi fratelli difettino totalmente di quel che più dovrebbe caratterizzare la destra: il senso dello Stato. Non è soltanto la totale mancanza di decoro certificata dal Boccia-gate. Un ministro che piagnucolando ammette che nominare consigliera per i grandi eventi (il G7, non la sagra della salsiccia) l’amante specialista di abiti da sposa «poteva configurare un potenziale conflitto d’interessi» dimostra che se il senso dello Stato delle sue classi dirigenti è questo, allora è normale che lo Stato faccia senso. Viene un pensiero ribaldo e paradossale. Il problema non è se questi siano fascisti o no (lo sono, comunque), ma che non lo sono abbastanza. Perché il fascismo una politica culturale, per quanto provinciale e autarchica, l’aveva e la sapeva fare. E mai, poniamo, ad Alessandro Pavolini sarebbe venuto in mente di nominare Doris Duranti sua consigliera al MinCulPop.