Corriere della Sera, 7 settembre 2024
Patrizia Valduga ricorda Giovanni Raboni a 20 anni dalla morte
Il 16 settembre di vent’anni fa moriva Giovanni Raboni, ma il poeta non se n’è mai andato da questa casa nel centro di Milano, con la biblioteca foderata di edizioni rare, le vetrine piene di velette Anni 20 e scarpe femminili, decine di foto in bianco e nero. «Questa era la sua scrivania, avvicinarsi è concesso a pochi», dice Patrizia Valduga, poeta, compagna del critico dal 1981 fino alla sua morte e oggi custode non tanto della sua memoria quanto della sua voce, ancora viva. Le velette e le scarpe sono sue, sigilli di una bellezza diafana e poetica.
«Ma venga in bagno», mi dice. Immagini di scena di Kantor, Beckett e Testori sovrastano vasca e lavandino. In un angolo c’è Ronconi che pugnala Gassman (in «Tre quarti di luna» di Squarzina). Valduga non ama le celebrazioni, allontana la retorica vestendo l’ovale del viso con un velo di fragile pizzo nero e sussurra: «Raboni aveva letto tutto. Tutto».
Aveva anche scritto tanto: poesie, critiche, traduzioni.
«Ho appena finito di battere al computer gli scritti sul cinema – più di un milione di caratteri – e quasi tutti usciti tra il dicembre del ‘68 e il settembre del ‘71. È stato il critico cinematografico dell’”Avvenire”, dal primo numero fino ai Diavoli di Ken Russell. Ne ha parlato bene, e se n’è dovuto andare».
Oggi l’espressione «critica militante» sembra un’astrazione, ma Raboni ne è stato un esempio perfetto.
«Per lui la critica era uno strumento di responsabilità morale. Un critico ha il dovere di dire quali sono i valori e dove sono. Le faccio un altro esempio: Giovanni collaborava alla Rai, un giorno gli mandarono il libro di un alto dirigente della tv pubblica chiedendogli di occuparsene. Lui si rifiutò di parlarne perché lo riteneva privo di valore e, piuttosto, decise di interrompere la collaborazione».
Raboni era conosciuto anche come il «Re Censore». Quali sono state le sue stroncature memorabili, che non risparmiarono neanche Umberto Eco?
«Be’ ai suoi tempi esisteva ancora una critica colta e responsabile: pensi a Baldacci, a Fortini, a Pampaloni... La stroncatura a Eco la sto cercando da vent’anni, e non l’ho ancora trovata; non deve aver avuto molta eco. E poi l’avevano stroncato in molti Il nome della rosa, appena uscito; anche Citati sul “Giorno”. Ha fatto colpo un pezzo contro Woody Allen, e una stroncatura di Schindler’s list».
Com’era la città di Milano ai suoi occhi?
«Più la gente che c’era se ne va / o si nasconde e meno avrebbe senso / lasciarla da vivo questa città / senza vita, scriveva alla fine degli anni ‘90. La città, dove si ostinava a vivere, l’ha sempre amata, anche degradata, anche invivibile. Per lui era sempre bellissima. Mi accorgo che sto usando proprio le sue parole».
Raboni pensava mai alla sua morte?
«Si potrebbe dire, se non sembrasse una battuta, che ha cominciato a pensarci dalla nascita. La morte è sempre presente: prima quella di Cristo, poi via via quella del padre, della madre, degli amici; e poi anche la sua. Sembra strano, per una persona che ha amato la vita enormemente, che ha avuto tante passioni e tanti amori. Ma non lo è: per lui la morte fa parte della vita, la completa e le dà senso: senza il pensiero della morte la vita è una vita fasulla. Negli ultimi anni parlava spesso della necessità di una “comunità di vivi e di morti”, per dare senso alla realtà, alla convivenza, alla storia, alla storia di ciascuno e a quella collettiva».
I grandi amici: Strehler, Ronconi...
«Quando Giorgio volle mettere in scena “L’Avaro” scelse la mia traduzione. Ero titubante, ma Giovanni mi spinse ad andarci. Ricordo Strehler e Paolo Villaggio seduti l’uno accanto all’altro».
Come vi siete conosciuti con Raboni?
«Era l’81, io una ragazza, lui 49 anni. Avevamo un appuntamento a casa sua, io suonai il campanello, ero vestita come Marlene Dietrich in Disonorata. Lui venne ad aprire e io gli dissi: “Sono un po’ ubriaca, dov’è il bagno? Devo pisciare”. Lui sorrise e mi indicò la strada».
Me lo racconta un episodio della vostra vita a cui è particolarmente legata?
«Mi perdoni, ma con due mogli vive, e molto più vive di me, un po’ di riserbo è più appropriato. Però posso dirle le parole di Raboni che leggo nei momenti di disperazione. Vuole sentirle?»
Prego.
«Così raccontò ad Angelo Gaccione: “Tutti, chi prima chi dopo, sono morti, lasciando un vuoto incolmabile sia in me che in questa città. Con i più giovani di me non sono mai riuscito ad avere rapporti di vera amicizia, forse perché loro aspiravano ad essere considerati dei figli e io di figli ne avevo già di miei, non avevo voglia di averne altri… Direi che il mio vero, unico sodalizio intellettuale, da diversi anni a questa parte, è con la donna con cui vivo, cosa che considero una delle (non molte) fortune che mi siano capitate nel corso della mia ormai lunga esistenza”».
Che cosa è stato per lei?
«Il mio unico amore».