Corriere della Sera, 7 settembre 2024
Carlo Cassola stronca, elogia e giudica i grandi scrittori
Ci sono scrittori che faticano a liberarsi di certi stereotipi che li riguardano pur senza esserne minimamente responsabili. Uno di questi è Carlo Cassola, che nei primi anni Sessanta fu bollato dalla neoavanguardia come uno scrittore banale, provinciale e ripetitivo, al punto da essere assunto a capofila esemplare delle «Liale» della letteratura, con ironica allusione a quella che allora era la più popolare scrittrice di romanzi rosa. Si trattava di una provocazione piuttosto crudele nata da una battuta di Edoardo Sanguineti rivolta agli autori di successo sentiti come tradizionali e consolatori, privi di forti ambizioni espressive e tanto meno trasgressive, quelle che piacevano al Gruppo 63.
Così Cassola si è portato dietro quello scherno, senza reagire mai pubblicamente, a differenza di Giorgio Bassani che invece si schierò a difesa dell’amico estendendo spontaneamente a sé l’appellativo (alla stessa brigata venne assimilato, tra gli altri, anche Vasco Pratolini). L’episodio, diventato leggenda nella storia letteraria del secondo Novecento, viene ricordato da Alba Andreini nell’ampia introduzione del volume che raccoglie, a sua cura, gli interventi di Cassola per il «Corriere» (Carlo Cassola e il Corriere della Sera. 1953-1984, Fondazione Corriere della Sera). Ne emerge una figura isolata, sia per ragioni politiche (un socialismo non allineato, persino l’appartenenza alla «fallocultura» secondo un’accusa femminista inflitta nel 1974), sia per le ragioni letterarie cui si accennava, estraneo com’era, indubbiamente, alle due linee «vincenti»: quella calviniana e quella gaddiana.
Certo, oggi leggendo i romanzi, i racconti e gli scritti giornalistici di Cassola, quella polemica risulta astrusa e anche immotivata: pur considerando la qualità diseguale della vastissima produzione cassoliana, è difficile oggi negare valore, a volte eccelso, a uno scrittore che aveva sposato, con rigore consapevole, uno stile «semplice», una prosa essenziale, priva di orpelli, che a Cesare Pavese appariva «onesta e noiosetta letteratura da rivista» e di cui Gianfranco Contini, invece, elogiò «l’assurdo che si sprigiona da referti così ordinari e insignificanti».
I sostenitori della prima ora non sono pochi, a cominciare dagli amici e sodali Luciano Bianciardi e Manlio Cancogni e dall’altro amico Mario Luzi, senza dimenticare l’ammirazione di Eugenio Montale, il sostegno dei primi editori einaudiani Elio Vittorini e Italo Calvino, la simpatia di Pier Paolo Pasolini, la solidarietà ondivaga dell’altro amico, Franco Fortini. Poi vengono i critici, tra cui Claudio Marabini, Geno Pampaloni, Cesare Garboli e Luigi Baldacci, che più di tutti rese omaggio alla naturalezza lirica e alla vena esistenziale del narratore più anti-ideologico e anti-intellettualistico del nostro tempo. Alla fine, i suoi estimatori furono tenaci almeno quanto i suoi detrattori, e se Umberto Eco e Giorgio Manganelli non furono mai teneri con lui, Sanguineti fece una parziale ritrattazione.
Del resto, a testimonianza di una sostanziale tenuta di Cassola nel canone c’è il «Meridiano», sempre a cura di Andreini, uscito nel 2007, nonché la consistente nuova serie di «Oscar» le cui prefazioni sono firmate da nomi rispettabilissimi, peraltro anche di generazioni più giovani (Massimo Raffaeli, Eraldo Affinati, Laura Pariani, Raffaele Manica, Massimo Onofri, Matteo Marchesini...). Tutti variamente tesi a valorizzare la complessità e la precisione che si nascondono dietro una scrittura diafana e «monotona», per nulla espressionista; ma anche a sottolineare i percorsi di uno spirito inquieto che dai racconti esistenziali, cosiddetti «subliminali», ispirati ai Dubliners di James Joyce, si muove con successo verso i motivi impegnati delle trame partigiane, per tornare alle origini e poi di nuovo allontanarsene e intraprendere con decisione la tematica antimilitarista e ambientalista diventando per molti lo «scrittore della catastrofe». Quello che tanti guardavano con noncuranza e che altri, come Goffredo Fofi, ammirarono, mettendo in risalto la solitudine intransigente del libero pensatore, «difficile e austero», in un Paese di intellettuali portati alla viltà e all’esibizione.
Ora, questo libro ci propone di guardare a un versante meno noto dello scrittore toscano, quello appunto giornalistico, rendendoci anche chiare alcune scelte di letteratura e di «ideologia», fasi di simbiosi o vicinanza tra le due, specie nella parentesi dell’impegno resistenziale, e alcuni passaggi dall’una all’altra, in particolare quello dell’ultimo periodo antimilitarista, in cui l’aspetto politico, e cioè la battaglia pacifista, prende sempre più il sopravvento. Dopo numerose e variegate esperienze pubblicistiche (quella con «Il Mondo» si colloca tra il 1950 e il 1954), Cassola cede alle insistenze del «Corriere», già avanzate da Mario Missiroli e da Alfio Russo, solo quando ne sarà direttore Giovanni Spadolini: solo dal 1968 comincia infatti a collaborare per la Terza pagina, con una rubrica ideata per lui dallo stesso Spadolini con il titolo Fogli di diario.
In precedenza, Cassola, a partire dal 1953, aveva firmato sul quotidiano solo sporadici racconti. Ma è con i Fogli che la sua presenza prende regolare sostanza, sempre nella posizione di elzeviro. Saranno articoli di vario tenore: spesso si parte da spunti autobiografici e memoriali per aprire a considerazioni di carattere generale sulla cultura, sulla letteratura, sulla poesia, sul cinema.
Si va dalle opinioni su Giacomo Leopardi «spettatore che perde quasi coscienza di sé» (e di cui solo «poche poesie vale la pena di tornar sempre a rileggere») a quelle sull’amato D. H. Lawrence, che gli piace perché noioso, aderendo a un pensiero confidatogli dall’amico Romano Bilenchi («Un libro dev’essere noioso»). Si va dal disgusto per certa cinematografia «incomprensibile» e intellettualistica all’«insuperabile fastidio» per Giovanni Pascoli («Uno zitellone, piagnucoloso e senza carattere, succubo quindi del cattivo gusto del tempo»). Ad apertura di pagina si trovano nel volume illuminazioni impreviste e idiosincrasie espresse sempre con estrema distanza anche se con durezza, come nel caso di Philip Roth, il cui Lamento di Portnoy viene definito «ignobile» e «confezionato secondo la ricetta del successo: dissacrazione, sesso, particolari fisiologici ripugnanti, chiacchiere intellettuali», oltre all’«ostentato disinteresse per la forma».
Nel disegnare la parabola della collaborazione per il «Corriere», Alba Andreini motiva la struttura del volume. La prima sezione coincide con i Fogli di diario confluiti nel volume Rizzoli omonimo uscito nel 1974, dove l’autore selezionò un nucleo di interventi, scartando quelli polemici e raccogliendo quelli «lirici», personali, autobiografici: un libro che piacque molto ad Anna Maria Ortese, che in una lettera ne esaltò «il coraggio della desolazione». La seconda parte riunifica i pezzi della rubrica non raccolti in volume. La terza, più disomogenea, mette insieme gli articoli estranei alle prime due sezioni e apparsi dagli inizi (1953) alla fine della collaborazione (1984). Memorabile, in questa sezione, un’intervista di Guido Vergani apparsa nel 1976: «Adesso che mi sono scaricato di certi complessi, glielo faccio vedere io cos’è l’impegno a certi signori (...). La storia dell’impegno italiano da Vittorini a Fortini è tutta una risata. È una nuova forma di arcadia».