Corriere della Sera, 7 settembre 2024
Zelensky ha iniziato ieri una sorta di «operazione recupero» in Occidente
Volodymr Zelensky ha iniziato ieri una sorta di «operazione recupero» in Occidente, da Ramstein in Germania a Cernobbio, sul Lago di Como. Le sue ultime mosse hanno spiazzato e, soprattutto, irritato le diplomazie europee e americana. Nessuno, né a Washington né a Bruxelles, si aspettava il siluramento del ministro degli Esteri Dmytro Kuleba. Una figura che negli ultimi due anni e mezzo era diventata centrale nel rapporto tra Kiev, l’Amministrazione Biden, i principali governi del Vecchio Continente e le istituzioni Ue. La stizza è a stento trattenuta nella nota ufficiale con cui il Segretario di Stato, Antony Blinken, ha commentato l’uscita di Kuleba. In via informale i funzionari statunitensi osservano che il «rimpasto» voluto da Zelensky è l’ennesima dimostrazione di come la «full disclosure», la piena trasparenza, «non sia una specialità ucraina». Negli ambienti diplomatici europei, invece, la manovra di Zelensky viene spiegata in due modi. Primo: la necessità di «bonificare» periodicamente i vertici dell’esecutivo per arginare la corruzione alimentata dall’enorme flusso di risorse finanziarie in arrivo dagli alleati. Per Kuleba, però, vale la seconda interpretazione: Zelensky e il suo più stretto collaboratore, Andriy Yermak, stanno accentrando tutto il potere e l’ormai ex ministro degli Esteri era considerato troppo autonomo, ingombrante.
In ogni caso, smaltito il nervosismo, si guarda avanti. Al vertice dei ministri della Difesa, nella base Usa di Ramstein, e poi a Cernobbio, Zelensky ha rinnovato la richiesta di altre armi, insistendo molto sui sistemi per la difesa aerea. Il capo del Pentagono, Lloyd Austin, lo ha rassicurato, come ha sempre fatto dall’inizio della guerra, annunciando l’invio di un altro pacchetto di aiuti militari per 250 milioni di dollari, portando a ben 4 miliardi di dollari il totale degli ultimi tre mesi. Una cifra, tanto per avere un’idea delle proporzioni, superiore ai 3,1 miliardi messi in campo dalla Francia dal principio del conflitto a oggi (fonte: «Kiel Institute for the world economy»).
Gli aspetti militari si incrociano con quelli politici. Da una parte il leader ucraino sollecita bruscamente la consegna delle munizioni e dei missili promessi e non ancora giunti a destinazione. Dall’altra dice di essere pronto a presentare «un piano di pace», in modo da aprire un negoziato diretto con la Russia. Come si tengono insieme le due strategie? La spiegazione più diffusa tra gli analisti Usa è nota: Zelensky punta a rafforzare il più possibile la posizione militare sul campo, in modo da poter trattare con Vladimir Putin da una posizione vantaggiosa. A questo proposito, insiste il presidente ucraino, è essenziale poter usare i missili Usa a lunga gittata per colpire anche i bersagli più lontani dalla frontiera ucraina. Joe Biden, però, resiste su una posizione prudente, fino all’ambiguità: via libera per attaccare solo le installazioni più vicine al confine, quelle che costituiscono una «minaccia imminente». Ma la campagna di Zelensky raccoglie sempre più consensi. Ieri ha ottenuto l’appoggio esplicito del Canada, che si aggiunge a quello di Regno Unito, Francia, Polonia. La Germania tentenna. Italia e Ungheria, come si sa, sono contrarie.
L’altro passaggio chiave è lo sconfinamento in Russia, con l’occupazione della regione di Kursk, nome che finora richiamava solo una delle più grandi battaglie tra i carri armati nazisti e quelli sovietici nella Seconda guerra mondiale. L’idea degli ucraini sarebbe quella di barattare Kursk con una quota del territorio invaso dai russi. È uno schema che convince gli alleati americani ed europei? Le perplessità sono più profonde di quanto appaia in superficie. Certo Biden, Blinken, Austin non hanno sconfessato l’iniziativa dell’esercito ucraino. Nello stesso tempo, però, Washington continua a inviare un messaggio a Mosca, così come a Pechino: non siamo stati in alcun modo coinvolti nella pianificazione e nell’esecuzione dell’attacco a Kursk. Come dire: la «trovata» dello scambio di territori occupati è nata ed è stata gestita interamente da Kiev. Non basta: i generali Usa ora si chiedono se le forze armate ucraine saranno in grado di mantenere il controllo di Kursk e se davvero l’esercito russo alleggerirà la pressione sul Donbass per rafforzare il fronte interno. Finora, notano al Pentagono, tutto ciò non è accaduto. Anzi. Qualche settimana fa l’armata putiniana guadagnava 200-300 metri di campo al giorno, ora avanza al ritmo di 2-3 chilometri.
In tutta questa faccenda di Kursk, gli americani scorgono un segnale positivo: la disponibilità ucraina ad affrontare, in un modo o nell’altro, la «questione territoriale». Da tempo la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato sono convinti che per avviare il dialogo con Mosca, Kiev dovrà compiere dolorose rinunce. Per esempio in pochi credono che la Crimea possa essere riconquistata. E ormai non solo quella