Corriere della Sera, 7 settembre 2024
Sarà complicato per il Pd mettere i bastoni tra le ruote a Raffaele Fitto
Sarà complicato per il Pd non votare a favore di Raffaele Fitto in Europa. Perché fu proprio Fitto a sostenere Paolo Gentiloni cinque anni fa.
Era il 3 ottobre del 2019 quando il commissario italiano designato per l’Economia si presentò davanti al Parlamento europeo per ottenere la «fiducia». All’audizione partecipò anche Fitto, che allora era copresidente dei Conservatori e che alla vigilia del voto garantì all’ex premier dem il sostegno del suo gruppo. Fu così che l’Ecr votò a favore di Gentiloni, agevolandone la nomina.
Nessuno immaginava che le parti si sarebbero rovesciate. Fra meno di un mese toccherà a Elly Schlein decidere quale posizione assumere. Superate le schermaglie della vigilia, dovrà scegliere: con quale motivazione potrebbe opporsi alla nomina di Fitto?
Perché cinque anni fa il centrodestra optò per uno schema di «interesse nazionale»: non vide cioè in Gentiloni l’avversario politico che aveva osteggiato quando sedeva a Palazzo Chigi, bensì il rappresentante italiano che avrebbe rappresentato il Paese a Bruxelles. Persino Silvio Berlusconi, nonostante i suoi problemi di salute, volle essere presente all’audizione del candidato italiano alla Commissione per dare un segno visibile del suo appoggio.
Certo, se Fitto venisse nominato vicepresidente esecutivo del governo europeo, si tratterebbe di una chiara vittoria di Giorgia Meloni e cadrebbe la tesi secondo la quale la premier è isolata nell’Unione e senza forza contrattuale. Ecco perché nel Pd questa eventualità è già vissuta come una sconfitta. Forse per questo si rincorrono le voci su azioni di disturbo, tese a impedire che al prossimo commissario italiano venga riconosciuto un rango così elevato nella stanza dei bottoni dell’Ue.
La vicepresidenza esecutiva farebbe di Fitto uno dei quattro «bracci destri» di Ursula von der Leyen, con un ruolo di coordinamento piramidale su altri membri dell’esecutivo europeo. Senza dimenticare il portafoglio da mille miliardi, che sono il budget destinato a chi avrà le deleghe alla Coesione e al Pnrr. Un simile riconoscimento al candidato italiano cambierebbe anche la narrazione sul voto contrario di FdI alla presidente della Commissione, che a sentire più fonti autorevoli sarebbe stata «un’operazione concordata da Roma e Bruxelles per evitare che von der Leyen rimanesse ostaggio di manovre ostili nella sua stessa maggioranza».
Si vedrà quale portafoglio verrà assegnato al commissario italiano, «in ogni caso non si può ragionare con la logica del tanto peggio tanto meglio», dice Pier Ferdinando Casini, che sul Corriere ha invitato la segretaria dem a sostenere Fitto: «Passa da queste scelte la possibilità di costruire un’alternativa di governo seria e credibile». La logica dell’«interesse nazionale» è la stessa che ha spinto Matteo Renzi a criticare l’attacco di Renew a Fitto e che lo ha portato a sottolineare come i partiti di opposizione in Italia abbiano «il dovere di difendere» il candidato proposto da Meloni. Un’analisi che è condivisa dall’area riformista del Pd a Strasburgo: da Stefano Bonaccini ad Antonio Decaro.
Anche perché raffigurare come un estremista chi ha una storia democristiana è complicato. È stato Fitto che democristianamente ha accompagnato Meloni a Bruxelles nel suo primo viaggio da premier, è Fitto che democristianamente ha lavorato alla riscrittura del Pnrr in accordo con von der Leyen, è sempre Fitto che ha seppellito democristianamente il ventennale conflitto con l’Unione sui balneari. Ed è evidente che per la presidente della Commissione era lui «la prima scelta» italiana, così come è chiaro che il tedesco Manfred Weber si stia adoperando per aiutarlo in vista dell’audizione.
Resta da capire se il Pd deciderà di «baciare il rospo», come sostengono i dem più intransigenti. «Ma ha votato per Gentiloni», insiste Casini. Come a dire che la soluzione c’è, perché Fitto democristianamente diverrebbe il «commissario italiano», non (solo) di Meloni.