Corriere della Sera, 7 settembre 2024
L’industria delle armi vuole che le spese militari stiano fuori dal Patto di stabilità
Stefano Pontecorvo, presidente di Leonardo, è appena rientrato da una serie di incontri fra manager della difesa in Polonia. Segue ogni giorno il confronto sugli investimenti ormai necessari a tutti i Paesi della Nato e sui risparmi richiesti dalle regole europee sui bilanci. Ed è giunto a una conclusione: le due cornici di vincoli sono incompatibili l’una con l’altra.
Presidente Pontecorvo, il nuovo patto di Stabilità prevede che si tenga conto in modo speciale dell’aumento delle spese per la difesa prima di mettere un Paese in procedura per deficit eccessivo. Non basta?
«È senz’altro un passo nella giusta direzione, ma non mi pare sufficiente. Anche perché attualmente nella Nato l’impegno dei governi adesso è portare la spesa per la difesa al 2% del prodotto interno lordo, ma quella soglia potrebbe salire».
Pensa che si possa arrivare anche al 3% del Pil di spesa per la difesa? Di certo Donald Trump, nella sua campagna elettorale, ne parla.
«Vedo anch’io quel che dicono i vari leader, la tendenza è quella. D’altro canto abbiamo due guerre aperte a due ore di volo da Fiumicino: questa è la realtà del Paese e dell’Europa. Perciò la Nato oggi chiede un impegno politico a una spesa militare al 2% del Pil, che potrebbe salire in futuro: la difesa diventa uno sforzo collettivo e una spesa obbligata. Dall’altra parte, l’Unione europea ti sanziona proprio se la spesa e il deficit aumentano. Evidentemente gli insiemi di regole di organizzazioni in gran parte con gli stessi Paesi membri non si parlano. Un insieme di criteri non prende in considerazione l’altro».
Ma non è un problema in particolare dell’Italia, visto il livello del nostro debito?
«È un problema di tutti i Paesi europei che sono anche Paesi della Nato. Noi lo abbiamo più grande perché abbiamo un grande debito pubblico, come ha opportunamente ricordato il presidente Sergio Mattarella qui a Cernobbio. Ma c’è un problema istituzionale, perché l’Europa della difesa sta evolvendo verso un sistema vero, effettivo. E non tenere conto di questa evoluzione in un altro palazzo di Bruxelles sarebbe francamente un po’ suicida».
Dunque lei propone che la spesa nella difesa venga interamente tolta dal calcolo del deficit?
«Almeno in una prima fase, sì. Abbiamo davanti uno sforzo notevolissimo. Su un orizzonte di cinque anni si può pensare a un’esenzione totale dalle regole sul deficit. Ma non solo. Si parla sempre di perseguire gli obiettivi più importanti con risorse comuni europee: non riesco a vedere un terreno più adatto all’emissione di un eurobond che non sia l’Europa della difesa e della sicurezza. Le dimensioni degli investimenti necessari sono tali che nessun Paese può farcela da solo. E se la sicurezza è un’emergenza, allora bisogna rispondere con i mezzi già usati per le altre emergenze».
La presidente della Commissione Ursula von der Leyen pensa a un nuovo commissario Ue per la Difesa. Porterà valore aggiunto o può complicare il dialogo in corso fra le varie imprese europee del settore?
«Secondo me ha senso avere un coordinamento, anche stringente. Poi questo però non deve essere sinonimo di coordinamento obbligatorio fatto a Bruxelles. Dipenderà dalla personalità prescelta, dalle deleghe e dal perimetro di azione che avrà».
Come vede lo sviluppo del coordinamento fra le grandi imprese del settore, in questa fase?
«Stiamo continuando a fare progressi. Il nostro lavoro con Rheinmetall per un nuovo carro procede bene e sempre siamo aperti ad altre cooperazioni con altri. Il margine di razionalizzazione degli sforzi è enorme, basta fare il confronto con gli Stati Uniti. Nelle navi militari loro producono su due piattaforme e noi europei su quattro, nei mezzi aerei loro producono su quattro piattaforme e noi su sedici; nei mezzi di terra, loro producono su quattro piattaforme mentre noi su otto. Ed è inutile dire da che parte, fra Stati Uniti ed Europa, si trova l’esercito più potente».