il venerdì, 6 settembre 2024
Gerusalemme e l’aumento degli abitanti ultraortodossi
Gerusalemme. Noa si aggiusta la camicetta e si prepara: «This is soooo exciting!» grida nel suo inglese con accento americano prima di lanciarsi giù dalla nuovissima zip line che da tre settimane porta turisti come lei, arrivata da New York in visita ai parenti che vivono qui, e residenti, ad ammirare sospesi in aria una delle viste più belle del mondo: la Città vecchia di Gerusalemme. A 78 chilometri verso Sud c’è Gaza, dove da undici mesi si combatte. A 180 chilometri a Nord il Libano, la frontiera più bollente del Medio Oriente.
Polemiche in 3d Noa forse non lo sa, ma il suo volo fa parte di un progetto che da anni gli esperti definiscono come la creazione di una “Disneyland religiosa” attorno a Gerusalemme. A gestire la zip line è City of David, associazione di ebrei religiosi che già lavora in altre parti della città per sottolinearne l’eredità ebraica. E religiosi sono quelli in fila per il volo. Come Noa e la sua famiglia, appunto. Disclaimer: una delle prime cose che si impara a Gerusalemme è che a raccontarti chi sono, e spesso anche cosa pensano, le persone sono gli abiti: i cappelli neri e le camicie bianche degli ultraortodossi, le cuffiette scure e le calze pesanti delle mogli; le gonne lunghe e i turbanti delle donne religiose; i riccioli sulle orecchie e la kippah all’uncinetto dei “ragazzi delle colline”, i più estremisti fra gli israeliani che vivono nei Territori palestinesi; la jellaba dei musulmani e le tuniche – diverse per ogni confessione – delle suore cristiane.Per capire che ci fanno uomini, donne e ragazzini di fede appesi a un filo in cielo, scavalliamo la collina ed entriamo nello studio di Daniel Seidemann, avvocato specializzato nella geopolitica della Gerusalemme contemporanea. «Progetti come quello che ha appena visitato mirano ad alterare il delicatissimo equilibrio di questo luogo, dando prevalenza a un gruppo sugli altri. E potenzialmente cambiandone il volto». Grazie al plastico in 3D che ha costruito, Seidemann ci elenca alcune delle iniziative a suo giudizio più controverse: oltre ai 730 metri di zip line a ridosso di due quartieri musulmani, c’è il parco archeologico di City of David, la funivia che porta non lontano dal Muro del Pianto e un ponte sospeso sopra la zona (araba) di Silwan. Tutti progetti denunciati dal “campo della pace”, come qui viene definito chi si batte per il dialogo con i palestinesi. E mai fermati.
Si può essere d’accordo o no con la visione dell’avvocato Seidemann, ma che Gerusalemme negli ultimi trent’anni in qualche modo si sia ristretta è un fatto. E non ci vuole la sua conoscenza enciclopedica per vederlo.
Bianco e neroBasta prendere il treno che da Tel Aviv o dall’aeroporto Ben Gurion porta alla stazione centrale di Gerusalemme evitando – per l’equivalente di 6 euro – i serpentoni di auto che a ogni ora si inerpicano sulla collina dove a 754 metri di altezza sorge la città. Vi accoglierà un mare di bianco e nero, i colori della comunità ultraortodossa che negli ultimi anni si è espansa dai suoi quartieri tradizionali di Mea Sharim e Geula (quello della serie tv Shtisel), alle zone che una volta erano miste, come Musrara, appena sopra la linea che prima del ’67 divideva la città ebraica da quella musulmana. Il tentativo fatto nella seconda metà degli anni 80 di difendere il pluralismo dell’area, portandoci un’accademia d’arte e istituti culturali, è fallito: qui ora ci sono alberghi, ristoranti e interi palazzi dove l’utenza è solo ultraortodossa. Il risultato, allargato a tutta la città, è un’atmosfera che molti, fra i laici, giudicano troppo pesante: per un milione di abitanti ci sono solo tre cinema, mentre bar e ristoranti sono concentrati in poche isole. «A Gerusalemme si viene per morire, se vuoi vivere vai a Tel Aviv», ripetono in tanti parafrasando un vecchio adagio.
A confermare il cambiamento ci sono i numeri: secondo il Jerusalem Institute, solo il 9 per cento della popolazione qui si definisce “laica”. Il 28 per cento degli abitanti sono ebrei ultraortodossi, il 14 per cento religiosi, il 9 “tradizionalisti”. Dei 31 membri del consiglio municipale, solo sei sono laici. E poi ci sono loro: il 39 per cento di palestinesi, che in consiglio municipale non hanno voce perché boicottano le elezioni, non riconoscendo la sovranità di Israele su tutta la città. Vivono in quella che sin da dopo la guerra dei Sei giorni, nel 1967, quando Israele prese possesso dell’intera Gerusalemme, reclamano come la loro capitale, ovvero la zona Est, che dalla porta di Damasco corre verso Salah al Din road e poi verso la strada che porta a Ramallah. E, dentro le mura, abbraccia la moschea Al Aqsa. È più della metà della Città vecchia, circa un terzo di quella moderna. Ma varcare la strada che la divide dalla Gerusalemme ebraica e che corre lungo la ex Linea Verde, è come entrare in un altro mondo. Altri abiti, altri sapori, altra musica. E un’altra lingua, quell’arabo che per i palestinesi di Gerusalemme Est è la lingua madre. E che tutti parlano accanto all’ebraico.Il braccio di ferro sullo stato di questa area, e di tutta Gerusalemme, va avanti da decenni: le Nazioni Unite e la maggior parte dei Paesi condividono la necessità di trovare una soluzione condivisa, ma l’idea ha sofferto un colpo durissimo nel 2017, quando l’allora presidente Trump scelse di riconoscere la città come capitale dello Stato ebraico, spostando qui l’ambasciata americana. Quattro Paesi lo hanno seguito – Kosovo, Guatemala, Honduras e Papua Nuova Guinea – gli altri mantengono una doppia rappresentanza: ambasciata a Tel Aviv, Consolato generale a Gerusalemme Est per gli affari palestinesi.
Un parcheggio esplosivoIntanto, gli spazi di convivenza si restringono: la storia dell’hotel American Colony, uno dei più famosi della città, oasi di verde e di eleganza, dove in segreto partirono i negoziati che nel 1993 portarono agli Accordi di Oslo, lo racconta bene. In crisi dopo la chiusura per Covid prima e per l’assenza di turisti stranieri provocata dalla guerra con Gaza poi, l’albergo – che si trova nella parte Est – ha lanciato offerte per il pubblico locale, portando a pochi minuti da Damascus Gate oltre ai consueti giornalisti e diplomatici una clientela israeliana benestante (le stanze costano fra i 300 e i 400 euro a notte). E, per la maggior parte, ebrea. «Siamo sempre stati aperti a tutti, è la nostra storia», ci spiega il manager Alex Nassar. Ma questa politica ha creato non pochi malumori in zona. «La guerra non lascia spazio ai compromessi. Neanche a quelli di chi cerca solo di restare a galla. È tutto un “con noi o con loro”», commenta il responsabile di un altro hotel, chiedendo di restare anonimo.
La guerra. Vista da Gerusalemme è un’ombra che incombe pesantissima. «Non vada in Città vecchia: può passare per una di noi. È pericoloso», mi aveva raccomandato qualche mese fa un importante intellettuale ebreo. E la convivenza? E le tre religioni? «La situazione non fa che peggiorare. Soprattutto negli ultimi due anni», ci racconta un sacerdote cattolico. Il riferimento è all’entrata in carica dell’ultimo governo Netanyahu e al ruolo importante al suo interno dei ministri di estrema destra, Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir, che dentro e attorno alla città sostengono le stesse politiche espansionistiche che portano avanti in Cisgiordania.I cristiani, essendo il gruppo meno numeroso e quello che è titolare dell’area più piccola dentro le mura, sono le vittime principali di questa politica, come dimostrano i tanti episodi di aggressioni contro sacerdoti e suore e il caso nato attorno al parcheggio della comunità armena: un’ampia striscia di terreno che un gruppo considerato vicino a Ben Gvir punta ad acquistare.Può sopravvivere a così tante pressioni questa città vecchia quanto la Storia? Se lo chiedeva qualche settimana fa il quotidiano liberale Haaretz. «I laici devono rassegnarsi a essere minoranza e adottare un atteggiamento di difesa», ha scritto Nir Hasson. «No, c’è spazio per tutti» gli ha risposto la consigliera comunale Laura Wharton, ricordando i bar e ristoranti (venti in tutto, esclusi naturalmente quelli arabi) aperti durante lo Shabbat, e i mezzi di trasporto alternativi per il sabato, quando tutto in Israele si blocca per il giorno del riposo.
Gerusalemme, in quei giorni, per il visitatore diventa uno spettacolo nello spettacolo: ferma e silenziosa la parte ebraica, in piena attività quella araba. La attraversano anche gli ultraortodossi con i cappelli di pelliccia del giorno di festa, e spesso camminano lungo gli stessi vicoli usati il giorno prima dai musulmani per andare ad Al-Aqsa. Sulle loro teste, i muezzin cantano gli appelli alla preghiera, attorno le suore preparano le chiese per la domenica. Mondi diversi, stessa città. È così da secoli. «Gerusalemme è Gerusalemme solo se tutte le sue voci possono parlare», conclude Seidemann. «Sembrerebbe scontato, ma non è per niente facile».