il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2024
I profughi palestinesi uniti e la sfida per salvare Gaza
Ogni venerdì, al termine della preghiera, dalla moschea Al Hashimi di Irbid parte una manifestazione a sostegno della resistenza (qui chiamano così Hamas) a Gaza. I manifestanti cantano per le vie del centro, costeggiano gli antichi caravanserragli d’epoca ottomana, passano attraverso il mercato cittadino prima di arrivare alla torre dell’orologio di Irbid, seconda città della Giordania, dove si trova uno dei campi profughi palestinesi più grandi del paese. Il campo di Irbid venne fondato nel 1951 per accogliere i palestinesi fuggiti durante la prima nakba. Oggi ospita 100.000 persone e tutte vorrebbero tornare a vivere in Palestina. I profughi del ’48 e i loro figli hanno la cittadinanza giordana, mentre molti tra quelli arrivati dopo la Guerra dei sei giorni, nel ’67, non hanno documenti. Cacciati dalle loro case, dalla loro terra, costretti a vivere in campi profughi in condizioni economiche precarie, con le famiglie sotto le bombe israeliane a Gaza, con il diritto al ritorno garantito dalle risoluzioni Onu, ma bloccati in Giordania e, per di più, senza cittadinanza. È questa la tragedia palestinese.
Prima del 7 ottobre manifestazioni a sostegno di Hamas difficilmente sarebbero state autorizzate. Anche oggi le autorità giordane (non il popolo) non le amano, ma le immagini della mattanza di Gaza che passano su al Jazeera, la tv più vista non solo dai rifugiati palestinesi ma dagli stessi giordani, ha spinto il governo a permettere quel che un tempo non avrebbe permesso. Oggi i manifestanti possono liberamente inneggiare alla resistenza e persino chiedere a gran voce preghiere per i leader di Hamas. La Giordania è un paese legatissimo a Israele, Usa e Arabia Saudita. L’economia giordana dipende dallo Stato ebraico, Amman con Washington ha accordi militari e la gran parte del petrolio che viene raffinato nell’immensa raffineria di Zarqa arriva dai sauditi. Anche a Zarqa – la città più industriale della Giordania e dove nacque Abu Musab al-Zarqawi, leader di al Qaeda in Iraq – c’è un campo palestinese, si chiama Shnellar e anche qui il supporto ad Hamas cresce ogni giorno, soprattutto tra i giovani. La povertà, l’assenza di prospettive e le oscene ingiustizie patite dal popolo palestinese portano e porteranno inevitabilmente al radicalismo.
Osservare i volti dei più piccoli (ragazzi e ragazze che hanno parenti a Gaza o in Cisgiordania che da mesi vivono nell’incubo di vederli uccisi dalle bombe e dai cecchini israeliani), il dolore, la rabbia, la convinzione, mostra che la cosiddetta lotta israeliana ad Hamas è fallita clamorosamente. Ed è fallita sia militarmente che politicamente. Da quando, nel 1987, Hamas venne fondata come braccio armato dei Fratelli musulmani palestinesi, l’organizzazione non aveva mai ottenuto il sostegno di oggi.
A sud di Irbid, a pochi km da Jerash, l’antica Gerasa, città romana fondata dopo la conquista della regione da parte di Pompeo, c’è il campo profughi di Jerash, che qui tutti chiamano Gaza. Da un lato la bellezza della città romana, con il foro, l’anfiteatro e un arco dedicato ad Adriano per celebrare la visita dell’Imperatore nel 130 d.C., dall’altra la miseria del campo. Ci vivono 35.000 persone. Si chiama così perché la stragrande maggioranza dei profughi che vi abitano sono gazawi fuggiti nel ’67 quando l’esercito israeliano occupò la Striscia e iniziò a colonizzarla. La colonizzazione proseguì fino al 2005, quando, su ordine di Sharon, soldati e coloni israeliani abbandonarono Gaza. Nel 2005 finì la colonizzazione, non l’occupazione dato che Israele ha sempre mantenuto il controllo dei confini, del commercio, dello spazio aereo e delle telecomunicazioni della Striscia.
Nel 1969, da Gaza, arrivarono a Jerash 11.500 rifugiati. Quasi nessuno ottenne la cittadinanza giordana. L’80% degli abitanti vivono in condizioni di povertà assoluta. La maggior parte dei servizi sociali vengono garantiti dall’Unrwa, l’agenzia Onu per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente. Qui l’Unrwa ha realizzato cinque scuole e un centro di salute. Senza l’Unrwa la mortalità, anche quella infantile, sarebbe infinitamente superiore. D’altro canto l’accesso alla sanità giordana, per i rifugiati palestinesi sans-papiers è difficilissimo. È in discussione alla Knesset, il Parlamento israeliano, una legge per indicare l’Unrwa come organizzazione terrorista e impedirle di operare nei territori palestinesi occupati da Israele.
A Gaza ho incontrato Mohammed Jafa, un anziano palestinese con gli occhi profondi, una dignità fuori dal comune e tanta voglia di parlare.
I genitori di Mohammed erano originari del villaggio di Tel al-Saba, non lontano da Be’er Sheva: oggi la più grande città israeliana del deserto del Negev, ma nel 1948 era un villaggio di 4.000 abitanti, tutti palestinesi, assegnato dall’Onu allo Stato arabo. Ma su ordine del premier israeliano Ben Gurion, il villaggio, dov’erano di stanza truppe egiziane, venne attaccato dai soldati e conquistato. Migliaia di palestinesi fuggirono e molti di loro cercarono rifugio nella Striscia di Gaza, a 45 km di distanza.
“Nel 1948, quando siamo stati costretti a lasciare la nostra terra, non siamo andati direttamente a Gaza. La nostra migrazione è stata un viaggio a tappe. Ci siamo fermati in diverse città, a volte per un mese, altre volte per dieci giorni fino a quando siamo arrivati a Gaza. Sono nato in una di queste tappe, precisamente nel villaggio di Nalia, che faceva parte della Palestina prima della nakba. Siamo arrivati a Gaza a piedi e ci siamo stabiliti nel campo profughi di Jabalia a nord di Gaza City. Lì siamo rimasti fino al 1953 vivendo in tende e capanne senza ricevere aiuti da comunità internazionale o Onu. Solo nel 1953 l’Unrwa ci ha assistito fornendoci tende, case di mattoni e cemento, e ci hanno dato cibo e vestiti”.
Nel 1967, quando gli israeliani entrarono a Gaza, Mohammed fuggì di nuovo, stavolta verso la Giordania. È innamorato di Gaza, della resistenza e della resilienza dei suoi abitanti.
“Hai capito dove vivevo? A Jabalia, proprio lì”. Quel campo profughi è uno dei luoghi più densamente abitati al mondo. È impossibile sganciarvi una bomba senza provocare un bagno di sangue. Ciononostante Jabalia è il campo più bombardato della Striscia. Sotto le macerie ci sono centinaia di corpi di palestinesi che nessuno è riuscito a recuperare.
“Gaza è un simbolo di resistenza e determinazione”, ha aggiunto. “Tutto il mondo ormai riconosce Gaza come esempio di lotta e sopravvivenza. Anche se abbiamo pagato un prezzo alto il nostro spirito non è mai stato spezzato. Sono passati 57 anni da quando siamo arrivati qui in Giordania e io sono ancora un rifugiato senza diritti né benefici. Vivo da nomade, e mio figlio ha 45 anni e lo stesso destino incerto”.
Anche lui, uomo mite, accogliente, gentile, garbato, sostiene la resistenza. Ascoltandolo pensavo a quando Andreotti, nel 2006, durante la guerra Israele-Hezbollah, disse che “se ognuno di noi fosse nato in un campo profughi palestinese e non avesse da cinquant’anni nessuna prospettiva da dare ai figli, sarebbe un terrorista”. Mohammed, con le poche forze rimaste, mi baciava le mani e mi ringraziava per la visita, per le domande e mi chiamava abibi (“tesoro” in arabo). Prima di salutarci ha voluto inviare un messaggio alla Istituzioni italiane. “Chiedo al governo italiano di prendere una posizione giusta. Deve o schierarsi con il popolo palestinese o almeno mantenersi neutrale. Non possiamo accettare che il governo italiano appoggi Israele e non i palestinesi che lottano per la loro terra. Se non si può fare giustizia, almeno si resti neutrali. È vergognoso che il governo italiano stia con l’oppressore”. I palestinesi son così abituati a esser considerati gli ultimi tra gli ultimi, i diseredati, gli emarginati, i dannati della terra, che persino la neutralità la vedono come atteggiamento a loro favore. Ridotti alla fame, alla fuga, al supplizio e a sperare che il mondo, se proprio non riesce a capire le sofferenze degli oppressi, almeno la smetta di armare le mani dei carnefici.