il Fatto Quotidiano, 6 settembre 2024
La giravolta del “Gattopardo” ha gabbato anche la Germania Est
Nel 1961, nella curva della storia in cui a Berlino tirano su il Muro che marca la divisione dell’area socialista dal resto del mondo, la casa editrice Rütten & Loening pubblica Der Leopard di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. Copertina rossa con stemma blu (disegno e impaginato di Heinz Unzner), prezzo di vendita per chi può permetterselo: 7,80 marchi est, quasi tre volte il costo medio di un libro. La postfazione è di Alfred Kurella, l’“uomo del Cremlino a Berlino”, intellettuale e poliglotta, guida della Commissione cultura del Comitato centrale della Sed (il Partito socialista unificato tedesco), amico personale di Walter Ulbricht, dal 1950 a capo del partito e di quel pezzo di Germania tolta ai nazisti pochi anni prima.
Come sia stato possibile che Il Gattopardo sia riuscito a bucare l’occhiuta censura e l’imponente meccanismo burocratico a guardia di essa, è la documentata storia che Bernardina Rago racconta nel suo Il Gattopardo a guardia del Muro, uscito per Feltrinelli, vale a dire lo stesso editore che nel 1958 pubblicò, un anno dopo la morte del suo allora sconosciuto autore, uno dei primi “best seller” mondiali, successo riflesso poi dal film di Luchino Visconti del 1963.
Per inquadrare meglio la vicenda provate a immaginare cosa volesse dire in un Paese socialista che si avviava all’isolazionismo pubblicare un romanzo in cui Giuseppe Garibaldi, eroe del Risorgimento e mito pre-socialista, era “un cornuto”, in cui le masse erano rappresentate da un sottoproletariato cencioso, affatto esemplare, ai margini di una vicenda storica che vedeva il trionfo della borghesia sulla nobiltà (con gli esiti che poi vedremo), scritto addirittura da un principe e pubblicato per primo in Italia da Gian Giacomo Feltrinelli, quello che col Dottor Zivago quattro anni prima aveva creato una crisi politica anche tra i sovietici e il Pci di Togliatti che non era riuscito a bloccarne la pubblicazione. Un libro che, nei suoi primi anni di vita, anche il Pci, e alcuni dei suoi intellettuali più o meno organici, aveva bollato come una roba di poco spessore, nonostante il Premio Strega vinto, anche qui inaspettatamente, nel 1959.
Per migliorare l’inquadratura, immergiamoci nel sistema editoriale di Berlino Est attorno agli anni 60. Un posto dove pure la carta, prima ancora della stampa, era controllata, e se dovevi usare delle tonnellate di pagine per produrre letteratura, le dovevi togliere alle collane storiche (le più apprezzate dal sistema) o sociologiche, al resto.
Le case editrici qui erano di proprietà diretta o indiretta dello Stato. Per assicurare la pubblicazione di opere che fossero qualitativamente buone e ideologicamente allineate, il protocollo prevedeva l’invio del piano dell’opera al ministero della Cultura. Il piano doveva contenere le fondamentali “note” a piè di pagina che avrebbero condotto il lettore lungo le linee dell’ortodossia, le indicazioni su chi avrebbe prefatto e/o postfatto il libro e, soprattutto, in prima battuta, due pareri editoriali che avrebbero consentito una più compiuta valutazione al ministero. Senza i due pareri editoriali non si pubblicava.
Non bastassero questi accorgimenti, a volte anche la traduzione addolciva ed emendava. Ne Il nome della Rosa di Eco l’invasione di Praga (“Sei giorni dopo le truppe sovietiche invadevano la sventurata città”), fu limata figurando i carri armati sovietici che andavano in soccorso della Cecoslovacchia minacciata dalla controrivoluzione. E a Giorgio Bassani, ne Il giardino dei Finzi Contini, rimossero il patto Molotov-Ribbentrop (alleanza coi nazisti? Quando mai). Così come un libro già pronto per la pubblicazione fu tenuto lontano dalla stampa perché il suo autore aveva detto cose non gradite sulla Germania Est (non nel libro, ma in Occidente).
Documenti alla mano, la professoressa Rago ci racconta la genesi che ha permesso a un romanzo tanto geniale quanto disallineato all’Est di farsi largo attraverso il moloch burocratico-industriale dell’editoria del socialismo reale.
Un racconto che, pagina dopo pagina, spiega questa battaglia contro l’assurdo: i pareri editoriali che quasi lo stroncano, le autorizzazioni che via via si complicano, le riunioni, le intrusioni, le correzioni, le oltre 70 note messe a piè di pagina (erano 25 nella versione dell’Ovest, giusto per spiegare i babà, i tarì e i caciocavallo), l’epilogo con l’incredibile investimento in preziosa valuta estera da parte della Germania comunista e la tiratura ingente a 10 mila copie. Non vi diciamo la soluzione del caso perché è proprio nello svolgersi incongruo della vicenda che il lettore si porrà le sue domande. All’interno del libro di Rago è inserita anche la postfazione di Kurella, ed è forse quella la fotografia migliore di quel complicato processo editoriale. Quella che spiega come siano gli uomini e la cultura, a volte, incredibilmente, in una curva della storia, a guidare le masse.