il Giornale, 6 settembre 2024
Wodehous, anche la risata è inattuale
D a ragazzo la lettura dei libri di P.G. Wodehouse (1881-1975) era una delle poche oasi di salvezza certa in cui potersi rifugiare. Nel rapporto che legava Berto Wooster al suo maggiordomo Jeeves si racchiudeva un mondo fuori dal tempo dove la piega perfetta dei pantaloni, il club, i passatempi innocenti e le paure legate a zie dispotiche e cugini brontoloni che volevano a tutti i costi trovarti una moglie e un lavoro scandivano l’orizzonte immobile di fronte al frastuono della modernità. Berto era il prototipo del cretino felice, non così totalmente cretino dal non rendersi conto della propria felicità, non così ciecamente felice dal non rendersi conto della propria cretinaggine, e Jeeves il prototipo del deus ex machina che tutto vede e provvede, servizievole, ma non umile, distaccato ma non freddo, consapevole della propria superiorità e tuttavia consapevole del proprio ruolo e dei limiti ad esso connessi...
I libri di Wodehouse me li ero ritrovati nella biblioteca di casa, edizioni Bietti degli anni Trenta e Quaranta, popolari, ma dignitose. Quando, avendoci preso gusto, cominciai a cercarne di nuove, la qualità editoriale, tranne sporadiche eccezioni, si era intanto inabissata, pessima carta, pessime copertine, una rilegatura esplosiva che ti faceva saltare le pagine fra le mani, ma, più in generale, parlo dell’arco di tempo che va dalla metà degli anni Sessanta all’inizio degli Ottanta, era l’umorismo a non andare più di moda: si voleva la satira, meglio, la satira politica, si guardava con sospetto chi voleva semplicemente farti ridere, senza secondi fini, senza coscienza di classe, senza coscienza ideologica. Quando, in qualche fumosa e alcolica serata giovanile, in qualche assemblea universitaria ad alto tasso di impegno mi capitava di citare Wodehouse, sentivo l’imbarazzo e il gelo calare intorno a me, o perché era un nome sconosciuto, comunque non alla moda, o perché era il prototipo di ciò che veniva considerato un vizio borghese quanto assurdo: ridere, si sa, non è rivoluzionario...
Passata la sbronza ideologica, negli anni Novanta Wodehouse è entrato in gran spolvero nel catalogo di Guanda, con la curiosa eccezione proprio dei romanzi incui l’accoppiata vincente è quella fra Bertram Wooster e il suo maggiordomo, meglio, butler, Jeeves, e questa lacuna la colma ora, e giustamente, Sellerio con Alla buon’ora, Jeeves! (pgg. 383, euro 16), il primo in uscita della serie, tradotto molto bene e altrettanto bene introdotto da Beatrice Masini.
Nato nel 1881 e morto alla veneranda età di novantaquattro anni, P.G. Wodehouse scrisse nel corso della sua esistenza un centinaio di romanzi, 96 per l’esattezza, più di trecento racconti, sedici testi teatrali, i libretti di diciotto musical, sceneggiò una mezza dozzina di film, fu il paroliere di una trentina di canzoni... Una macchina di scrittura, insomma, sempre perfetta e mai trasandata e, se vogliamo, sempre lo stesso libro, dove la trama è sempre la stessa, ma ogni volta congegnata in modo diverso, e sempre con gli stessi personaggi, i cui nomi e cognomi sono quasi sempre altisonanti e composti, ma i cui soprannomi si incaricano di rimetterli al loro giusto posto: Pongo, Bingo, Puzza, Muffa, Trippa... Più che un mondo senza tempo, il suo è un mondo fuori del tempo, un romanzo del 1906 potrebbe essere stato scritto nel 1936 o nel 1966, come ha osservato già trent’anni fa Masolino d’Amico, e verso i suoi protagonisti si prova la stessa invidia come «per quelli dell’urna greca di Keats, che, mentre noi decadiamo e scompariamo, non saranno mai sfiorati dalla vecchiaia, e nemmeno dagli scioperi, dai terroristi, dall’Aids, dall’inquinamento, dalla crisi energetica, né da alcuna altra cosa spiacevole sopraggiunta nel mondo in seguito alla loro prima apparizione».
L’unica eccezione, almeno a mia conoscenza, è in Chiamate Jeeves, che è del 1953, quando in Inghilterra si è appena conclusa la parentesi laburista, ma la proletarizzazione è ormai un dato di fatto e anche i nobili si sono trovati costretti a lavorare. Bertram Wooster, infatti, si iscrive per precauzione a un corso dove imparare a cucinare, cucire e rammendare e da dove sarà però espulso perché dopo essersi aggiudicato il premio per il miglior rammendo di calzini si scoprirà che si era avvalso dell’aiuto di una donna anziana, da lui introdotta clandestinamente e di notte «nella sua stanza di studio».
Proprio questa Arcadia personale, mai esistita ma non per questo meno viva e meno popolata del mondo reale è alla base dell’unico infortunio in cui incappò Wodehouse nella sua lunga esistenza e di cui Beatrice Masini da puntualmente conto nella sua Introduzione.
Cinquantottenne allo scoppio della Seconda guerra mondiale, Wodehouse viveva da anni a Le Toquet, sulla costa nord della Francia. L’invasione nazista del 1940 lo colse lì e, arrestato in quanto inglese, venne infineinternato nel manicomio di Tost nell’Alta Slesia,trasformato in campo di prigionia. «La mia storia
bellica è stata semplice» scriverà poi a un amico: «Mi sono limitato a starmene seduto sulla mia sedia e a scrivere in continuazione».
Rilasciato, ma ancora in attesa di essere liberato, venne trasferito a Berlino, agli arresti domiciliari, ma nel lussuoso Hotel Adlon e qui, dietro insistenza del suo editore americano, venne invitato dalla Cbs a tenere alcune conversazioni radio per gli americani che vivevano e lavoravano in Germania e per quelli in patria che erano suoi fedeli lettori. Va ricordato, cosa che di solito viene tralasciata, che nel ’39, come nel ’40 e sino alla fine del 1941, gli Stati Uniti non erano in guerra contro la Germania, la crociata del Bene contro il Male nazista non era insomma ancora stata dichiarata e senza Pearl Harbour non è dato sapere quando da oltreoceano si sarebbero sentiti nell’obbligo morale di venire a liberarci... «Come essere un internato senza previo addestramento» fu il titolo della serie radiofonica e Wodehouse ironizzò sulla dieta carceraria, ottima per la sua salute, si prese gioco dei difetti di certi compagni di detenzione, in breve, fece Wodehouse... In patria non gli fu perdonato, in Francia dove continuò a risiedere, venne nel 1944 arrestato e accusato di collaborazionismo. Prosciolto, Wodehouse andò a vivere negli Stati Uniti e in Inghilterra non tornò più.
Di fronte a Wodehouse la critica letteraria è disarmata, con l’aggiunta che essendo questi un umorista, viene dalla stessa situato in un genere considerato inferiore. È un monumento della lingua inglese post-vittoriana per la limpidezza del suo stile e la vena ironica che lo sostiene e già negli anni Trenta Hilaire Belloc lo definì «il miglior scrittore inglese vivente oggi, il capo della mia professione». Come osserva Beatrice Masini, non importa se la sua Inghilterra non esiste più o non mai esistita, e del resto non è nemmeno detto che ciò sia del tutto vero, visto che dai romanzi di Galsworthy a quelli di Waugh, dalle serie televisive come Downton Abbey a film come Quel che resta del giorno, alla fine è proprio quel mondo, lo stesso di Wodehouse, quello che appare e ci attrae, gli stessi arredi, lo stesso repertorio, gli stessi incanti, ubbie, manie, lo stesso stile di vita. Quello che Wodehouse ci aggiunge è la gioia del mattino, di ogni mattino lungo un’esistenza in cui non ci potrà mai accadere nulla di grave, perché ci sarà sempre un Jeeves a toglierci dai guai.