Corriere della Sera, 6 settembre 2024
La Nazionale torna in campo dopo la grama figura degli europei
Sembra ieri.
Flash back.
La sveglia del cellulare suona all’alba in una Berlino livida, si va alla stazione per tornare presto a Dortmund, e poi da lì nel ritiro azzurro di Iserlohn, mentre un temporale esplode insieme ai brutti pensieri, all’incredulità per la storica umiliazione subita poche ore prima all’Olympiastadion, con la Svizzera che ci sbatte fuori dagli Europei e i nostri mai in partita, svuotati, senza orgoglio, senza dignità, ma con certi sguardi, con l’aria di essersi sentiti come sollevati al fischio finale dell’arbitro.
La città deserta sfila dietro i finestrini, il tassista tedesco di madre turca che ancora se la gode, noi del Corriere che ci soffiamo domande ovvie in attesa della conferenza stampa di fine spedizione. Si dimette Spalletti? Possibile e probabile. E il presidente Gravina? Dopo due qualificazioni mancate ai Mondiali e l’ultima vergogna, sì, certo, molto possibile e molto probabile che si dimetta anche lui.
Sapete come è andata.
I due sono ancora alla guida della Nazionale. Che, intanto, è arrivata a Parigi. Dove non vinciamo da 70 anni e dove comincia il cammino di questa Nations League, girone duro e delicato, perché in ballo c’è un posto da testa di serie ai gironi per la Coppa del Mondo. Intendiamoci: perdere con la Francia sarebbe nelle cose, è il calcio, ci sono valori precisi, loro con Mbappé, noi con Retegui. Il punto è però un altro e si porta dietro una domanda cruda, sgradevole, che qui, al Parco dei Principi, molti si ripetono a bassa voce, tra pena e imbarazzo: possiamo ancora fidarci di Luciano Spalletti?
Lui ha chiesto scusa. Ammette che la colpa del disastro europeo è stata sua, e solo sua. Racconta di avere trascorso un’estate tremenda, in un abisso di amarezza. Saliva sul trattore e andava per i campi della tenuta di Montaione, ma il pensiero gli restava fisso su un altro campo, rettangolare. Pensa e ripensa, sembra si sia convinto che l’errore fondamentale è stato quello di progettare per la Nazionale un calcio nuovo, visionario, definito «perimetrale» e «relazionale» (la maggior parte dei cronisti non ha nemmeno mai ben compreso cosa intendesse il cittì con questi concetti): alla fine Spalletti ha insomma capito che fatale è stata l’ostinazione di portare rapidamente gli azzurri dentro schemi per i quali sono invece necessari mesi di esercitazioni quotidiane e pazienti sedute psicologiche. La Nazionale è una squadra che ha tempi ristretti, tre giorni di ritiro e subito c’è la partita: ai calciatori – dice, ora, Spalletti – è preferibile dare un gioco semplice, accessibile, sulla lavagna devono trovare schemi a cui sono abituati. Per cui lascia intendere che, da adesso in poi, giocheremo sempre con un 3-5-2, trasformabile, al massimo, in un 3-4-2-1.
Ecco, siamo al punto: il ragionamento di Spalletti è pieno del buon pragmatismo antico di tanti suoi predecessori, ma scatena anche un dubbio. Profondo. E, senza ipocrisie, molto concreto. Siamo sicuri che sia lui il tecnico giusto per questo genere di calcio? Con quale animo, con che entusiasmo, siederà in panchina?
Il cittì aveva, e ha, un’altissima considerazione di se stesso. Può darsi l’abbia un filo limata, nei suoi tormenti sul trattore, ma insomma è chiaro che ancora pensa d’essere Spalletti. Le sue squadre sono sempre state un meraviglioso miscuglio di puro genio e pignoleria prossima all’ossessione. Vuole che i calciatori vivano di aspirazioni sublimi. I suoi registi hanno sempre avuto almeno tre linee di passaggio possibili (Pizarro, alla Roma, giurava di non averne mai meno di cinque). Lui si eccita se può inventare. Uno schema banale lo mortifica. E innervosisce. Lo vogliamo ancora più nervoso?
Così arriviamo al carattere. Per un cittì essere ruvido e permaloso può essere un grosso limite. Bisogna capire come riparte l’avventura. Molti calciatori non hanno certo dimenticato di quando, per spiegare la loro assoluta mancanza di personalità, ci raccontò un po’ sprezzante che alcuni avrebbero preferito non calciare eventuali rigori (possibilità che con gli svizzeri, comunque, non s’è neppure intravista). C’è da aggiungere che con Spalletti, in conferenza stampa, siamo tutti sempre un po’ come seduti su una mina. Può esplodere, ma anche no. Dipende dalla domanda. La verità è che fatica a capire quanto e come il suo sia un ruolo pure istituzionale, che prevede un certo, preciso galateo.
Riepilogando: Spalletti deve dare un nuovo gioco alla squadra (che resta tremendamente modesta, ma il calcio italiano questo offre) e riconquistare la fiducia dello spogliatoio, della stampa e, soprattutto, dei tifosi. Può riuscirci? Vediamo. Speriamo. La sensazione netta è che sia finito dentro una cupa e pericolosa solitudine (aggiungete che, all’epoca, fu scelto proprio da Gabriele Gravina, ora impegnato nella feroce battaglia per cercare di essere rieletto al comando della Federcalcio. E che tante coccole, perciò, non può nemmeno permettersele).