Corriere della Sera, 6 settembre 2024
Biografia di Massimo De Luca
Massimo De Luca, dopo tanti anni di radio e di televisione, adesso porta a teatro le grandi storie di sport che si intrecciano con la politica e la vicenda di Nicolò Carosio, padre di tutti quelli che raccontano lo sport davanti a un microfono.
È un po’ la sua rivincita?
«Diciamo di sì: prima dirigevo l’orchestra dei colleghi, a “Tutto il basket” e “Tutto il calcio minuto per minuto” e negli studi televisivi. Adesso racconto io e mi godo il respiro più ampio che ti offre il teatro, senza combattere con l’orologio».
Radio o tv: il suo vero amore qual è?
«Il primo, cioè la radio: è più affascinante, perché sei l’unico tramite fra il fatto e l’ascoltatore. E devi essere sintetico, conciso, non devi affaticare chi ti ascolta: come insegnava Sergio Zavoli “devi scrivere nel microfono”».
Zavoli è stato un maestro molto duro?
«Era severo, rigoroso sulla forma, ti correggeva le parole, i singoli aggettivi: una scuola formidabile, anche perché se aveva stima di te, ti dava sempre un’opportunità».
La sua quale fu?
«Mi scelse per il Gr1, dopo tre mesi ero già caposervizio, destando scandalo. Poi fui io ad andare da lui, perché avevamo un grande rapporto: il basket nel 1978 era lo sport dei giovani, ma non aveva nulla. Ci inventammo “Tutto il basket minuto per minuto”. E fu un successo».
Dieci anni dopo diventa direttore dell’orchestra di «Tutto il calcio», erede di Bortoluzzi. Aveva a che fare con molte primedonne?
«Lui mi lasciò il testimone, spiegandomi che i campi collegati dovevano dare il ritmo, mentre lo studio deve trasmettere l’armonia: da un lato i fuochi d’artificio, dall’altro un porto calmo».
Con Ciotti, Ameri e soci – e con tutte le partite di serie A giocate in contemporanea – l’atmosfera era scoppiettante?
«Ciotti e Ameri non si amavano un granché. Sandro era più tecnico, aveva giocato anche a discreto livello. Ameri era una musica, se lo risentiamo adesso è quasi più moderno dei radiocronisti di oggi, certamente è più godibile perché ora si tende a confondere ritmo e concitazione».
E qual è il rischio se si confondono?
«Quello di essere troppo ansiogeni, di dire tutto. Il risultato è l’utilizzo di troppe espressioni tecnico tattiche, come le “seconde palle”, i “quinti”, le “transizioni positive”. Mi chiedo cosa capisca il pubblico, soprattutto quello della televisione generalista: c’è troppo protagonismo».
Ma lei era ciottiano o ameriano?
«Dopo la maturità classica nel 1968 mi iscrissi a filosofia e iniziai a collaborare per gli sport minori con la Gazzetta grazie a Ciotti, amico della famiglia della mia fidanzata. Al mio quarantesimo compleanno lui suonava il piano e io cantavo in francese. Però, nonostante l’amicizia Sandro non gradiva essere smentito...».
Fu costretto a farlo?
«Al mio debutto mi resi conto che non avevamo i monitor per vedere le partite in bassa frequenza e li ottenni: quando si verificò il famoso episodio della monetina che a Bergamo colpì Alemao del Napoli, sapevo che Sandro non poteva averlo visto dalla tribuna e intervenni, sia pure coi sudori freddi. Lì si decise lo scudetto».
Dalla radio alla tv, dalla Rai a Mediaset, da Ciotti a Vianello. Due mondi molto diversi?
«Ero passato a prendere mia figlia, nella casa dove non abitavo più perché mi ero separato: alzai la cornetta a forma di Bart Simpson e dall’altra parte c’era Adriano Galliani: l’idea di lasciare Roma non mi aveva mai sfiorato e non dissi subito sì. Speravo che la Rai rilanciasse con la conduzione della Domenica Sportiva, ma Bruno Vespa non voleva un altro della radio dopo Ciotti».
Il primo incontro con Berlusconi come fu?
«C’era già stato alla radio: un pomeriggio volle venire nei nostri studi milanesi per vedere le partite nella sala allestita per la “bassa frequenza”. Io stavo conducendo, mi avvisarono e gli feci chiedere se voleva commentare in diretta la partita del Milan. Accettò, prese appunti ma dimenticò una penna stilografica di un certo valore, che gli feci avere tramite le guardie del corpo. Poi quando arrivai a Milano mi invitò ad Arcore e mi illustrò come riteneva andasse reimpostato il lavoro della redazione sportiva».
Con «Pressing Champions League» andaste in onda anche l’11 settembre 2001.
«Dopo un pomeriggio di ordini e contrordini, andai in onda da solo, senza pubblico e senza vallette. I dati di ascolto furono incredibili, con il 27% di share: dopo le ore di angoscia con l’attentato alle Torri Gemelle, il pubblico cercò un attimo di staccare, guardando i gol di Champions».
A parte quell’occasione drammatica, Vianello era il valore aggiunto per «staccare»?
«Sì, Raimondo era spassosissimo, era un signore e ovviamente era una primadonna. Ma era anche appassionato e molto competente: non era solo un maestro d’ironia con le sue battute fulminanti, ma ci metteva i contenuti».
Nei mari agitati della politica, lo sport era un’isola a parte o affrontava delle pressioni?
«L’ho avvertito negli anni di direzione di Raisport, un periodo limitato per mia scelta, visto che optai per un contratto a termine. In quei tre anni ho avuto più rapporti con personalità politiche che in tutto il resto della mia carriera».
Qual era l’oggetto dei rapporti?
«L’interesse non è solo che si dicano certe cose, visto che allo sport non ci si occupa del dibattito politico. Ma ad esempio se un certo evento è organizzato da una giunta di un certo colore, se ha le riprese televisive ha successo, altrimenti va peggio. E i colori politici potevano essere vari, non c’era una parte che si distingueva di più».
Tutto qui?
«C’erano anche le nomine dei vicedirettori, ma me la sono sempre cavata abbastanza bene. Un po’ perché non avevo appartenenze politiche dichiarate, quindi non dovevo dire grazie a nessuno. Un po’ perché cerchi di gestire, senza dire di sì a tutto. Ci sono stati colleghi che si sono fatti spingere molto dai politici».
Si è sempre occupato unicamente di sport?
«No. Negli anni di piombo eravamo tutti allertati e fui mandato tra l’altro al lago della Duchessa, per il comunicato poi rivelatosi fasullo, sul ritrovamento del cadavere di Aldo Moro. E mi occupai nel 1978 delle morti e delle elezioni dei Papi: per estrazione famigliare avevo rapporti col Vaticano. E questo mi facilitò anche nel servizio più incredibile di tutta la mia carriera».
Quale?
«Il funerale di Grace Kelly a Montecarlo, nel settembre 1982, come inviato del Gr1».
Perché il servizio di un funerale, anche se di una principessa, dovrebbe essere incredibile?
«Perché era una cerimonia privata. E riuscii a imbucarmi grazie a don Pintus, parroco di San Lorenzo in Lucina a Roma, monegasco di nascita, prete che trovai sul volo per Nizza, amico di mio zio che era un famoso biblista. Lui mi condusse a Palazzo Grimaldi e una porticina dopo l’altra, siamo entrati nella cappella privata: c’erano le due famiglie, quella monegasca e quella americana, il sacerdote che officiava, don Pintus e io, con la camicia di lino azzurra e la giacca a righine bianche e azzurre, simile a quella usata da Bearzot al Mondiale spagnolo. Da vergognarsi. Uscendo, Carolina mi fece un cenno di saluto: chissà chi pensava che fossi».
Ha detto che mai avrebbe pensato di lasciare Roma. È rimasto a vivere a Milano?
«Sì, nella zona del tribunale. E ora non lascerei Milano per niente al mondo».
Colpa anche di Roma?
«Un po’ sì purtroppo. La considero ancora la città più bella del mondo, però le condizioni in cui versa ti fanno disamorare».
L’assenza di accento romano nella sua dizione è frutto di un lavoro specifico?
«È frutto della scuola di Zavoli, della sua disciplina e delle spiegazioni su come eliminare ogni inflessione. Ma quando gioco a golf mi dicono che si sente l’accento, perché mi lascio andare».
Ma in filosofia alla fine si laureò?
«No, ho dato tutti gli esami, l’ultimo nel 1989, ma non ho dato la tesi. Vorrei sentire se è ancora possibile farla, discuterla e prendere la laurea».
I suoi genitori di cosa si occupavano?
«Mio padre, siciliano, era un musicista compositore, mia madre, casalinga, era napoletana. Si sono conosciuti a Roma durante la guerra».
Ha ereditato la vocazione musicale?
«Neanche un po’ ed è un grande rammarico. Il lato artistico appartiene a mio fratello Maurizio, che suona vari strumenti, compone e dipinge: è stato per molti anni il responsabile del laboratorio restauri dei Musei Vaticani».
Considerato il lavoro teatrale fatto su Nicolò Carosio, è giusto parlare di una riabilitazione?
«Sì, perché c’è ancora chi sostiene di avergli sentito pronunciare in telecronaca un insulto razzista al guardalinee etiope che annullò un gol a Riva durante la partita con Israele al Mondiale messicano del 1970. Le ricerche di Pino Frisoli, lo storico più documentato per lo sport radiotelevisivo in Italia, smentiscono la ricostruzione. E scagionano il padre di tutti noi radiocronisti».
Però Carosio non fece la telecronaca di Italia-Germania 4-3, che fu affidata a Martellini.
«Sì, perché le polemiche furono accese. Ma riascoltando la telecronaca, quella parola non fu mai detta: Carosio dice solo, stizzito, “l’etiope annulla”. Piuttosto, alla radio nelle interviste post partita il grande giornalista Antonio Ghirelli – sottolineando il carattere scherzoso della sua affermazione – parlò di “vendetta del Negus”. E di questo si trova traccia in una lettera di Carmelo Bene all’Unità. Enzo Tortora sul Carlino disse “se non fate più dire etiope a Carosio, non trasmettete più l’Aida, che contiene quella parola”».
Da Carosio è passato a Kennedy e Castro.
«“Posso battere Kennedy a golf” è il titolo dell’ultimo spettacolo, tra sport e politica. Quella frase fu detta a Guevara da Castro, che in realtà non era minimamente al livello di Jfk sul green».
E lei come se la cava?
«Non come il mio amico Zola, che è bravissimo, ma mi difendo. Ho visto mille eventi sportivi in vita mia, ma l’emozione di seguire sul posto il Masters di Augusta è unica».