Corriere della Sera, 6 settembre 2024
Effetti della guerra in Ucraina sul mercato energetico, sul mercato del grano, sull’estrazione mineraria, sulla diplomazia, sulla nostra debolezza che scambiamo per pacifismo
A ll’indomani delle elezioni tedesche i titoli di diverse aziende europee della difesa sono scesi in Borsa. I mercati hanno fatto questo collegamento: l’avanzata di due partiti russofili, l’AfD di estrema destra e la Bsw di estrema sinistra, può preludere a uno spostamento della Germania su posizioni più putiniane. Quindi ridurre gli sforzi per un adeguamento della difesa europea alle minacce del nostro tempo. L’episodio dà la misura dell’incertezza in cui navighiamo. Da un lato è impossibile dire come finirà il conflitto militare, anche se i rapporti di forze rimangono favorevoli alla Russia, e le restrizioni imposte dai Paesi Nato penalizzano l’Ucraina. D’altro lato è difficile prevedere quale determinazione avrà la Nato in futuro. Sulla compattezza atlantica grava l’incognita delle elezioni americane. Altre fonti d’instabilità sono interne all’Europa, cominciando dal Paese più grosso e più ricco, quella Germania il cui cancelliere Olaf Scholz aveva promesso una svolta storica nelle spese per la sicurezza. (È pur vero, ad attenuare l’allarme di Borsa sui titoli delle aziende di armamenti, che fra i vincitori delle elezioni regionali tedesche il più importante è la Cdu, democristiana e atlantista).
Nell’incertezza sulle sorti di questo conflitto che dura da due anni e mezzo, è possibile riflettere se ci ha insegnato qualcosa? Se ne discute da oggi al Forum Ambrosetti di Villa d’Este, Cernobbio.
V i sarà presentato un rapporto sulla guerra Russia-Ucraina che merita di essere letto nel suo insieme, proposte incluse. Mi limito ad estrarne solo frammenti di riflessioni mie. Poiché la situazione militare e politica è avvolta nella nebbia, forse è più utile cominciare da temi come l’energia e l’economia.
Sul fronte energetico, l’Europa partiva da una drammatica dipendenza dalle forniture russe di gas e petrolio. Profeti di sventura denunciarono come dissennate le sanzioni e pronosticarono un’Apocalisse da penuria energetica. Non è accaduto, perché una cooperazione virtuosa tra Commissione Ue, governi nazionali, e sistema delle imprese, ha diversificato le fonti di energie fossili, ha aumentato il peso delle rinnovabili, ha ridotto consumi e sprechi. Per il gas naturale l’Europa è riuscita a sostituire in fretta la Russia con Stati Uniti, Qatar, Australia. Il paradosso è che qui la guerra ha finito per renderci più sicuri. Prima che Putin lanciasse l’aggressione all’Ucraina l’Europa si era messa in un pericolo estremo, troppo dipendente da Mosca, vulnerabile e ricattabile. Oggi l’approvvigionamento è diversificato. Bisogna continuare nella stessa direzione, rimanendo vigilanti sul rischio geopolitico delle fonti. Al tempo stesso la guerra ha contribuito a ricordarci che di energie fossili avremo bisogno ancora per un bel po’. Certe rigidità della transizione verde pianificata da Bruxelles hanno subito un rigetto alle elezioni europee e nazionali. Come dimostra l’Amministrazione Biden-Harris in America con il via libera all’estrazione di energie fossili, l’ambientalismo deve fare i conti con la sicurezza nazionale.
La guerra ha provocato uno shock più serio sul fronte delle derrate agroalimentari visto il ruolo di Russia e Ucraina nel commercio mondiale di grano. I Paesi ricchi hanno assorbito l’urto, ma in quelli emergenti le tensioni inflazionistiche contribuiscono a rivolte e instabilità politica, in un vasto arco di agitazioni dal Kenya al Bangladesh. L’Africa in particolare deve diminuire la propria dipendenza. Il modello non sono le prediche astratte di tecnocrati e ong innamorati dell’agricoltura biologica (che riduce i raccolti) ma la madre di tutte le «rivoluzioni verdi»: la modernizzazione dell’agricoltura indiana che ha trasformato un subcontinente affamato in una superpotenza esportatrice di cibo.
Un altro settore dove la guerra impone una svolta pragmatica, è l’estrazione mineraria. In particolare per terre rare e metalli strategici, molti dei quali indispensabili alla nuova economia decarbonizzata. L’Occidente deve riaprire miniere dismesse, inaugurarne di nuove. Sia per colmare l’ammanco di forniture dalle zone belliche; sia per non condannarsi alla nuova dipendenza verso la Cina. Pechino pur di costruire un monopolio minerario mondiale non esita a proteggere le proprie aziende dalle fluttuazioni selvagge dei prezzi di mercato, altro tema delicato che dobbiamo affrontare.
Poi c’è la partita diplomatica. Non c’è ragione per illudersi sulla volontà di Putin di sedersi a un tavolo di negoziato, se non dopo aver dissanguato la nazione ucraina riducendola a subire diktat. Però un esercizio utile parte da una ricostruzione del passato: quando, come e perché la diplomazia fallì, prima che Putin passasse alle armi. L’autopsia degli accordi Minsk è doverosa: smontare i meccanismi di un fiasco può regalarci suggerimenti per il futuro. Perché una volta passate le elezioni americane, qualche tipo di negoziato si riaprirà.
L’ultima lezione in sospeso è sulla consapevolezza che dovremo saperci difendere, con o senza l’America, perché il mondo non è avviato verso un futuro di pace e stabilità. Nel dopoguerra due grandi imprenditori pur diversissimi tra loro, Enrico Mattei e Adriano Olivetti, investirono per diffondere una cultura industriale, in un Paese che le era estraneo e ostile. Oggi urge uno sforzo analogo per una cultura della sicurezza, in un’Italia che scambia la sua fragilità per pacifismo