Corriere della Sera, 5 settembre 2024
Paderno Dugnano, parla don Gino Regoldi
«Credo ci siano dei disturbi psichici profondi, che vanno ben oltre il malessere, verranno valutati col tempo», riflette don Gino Rigoldi, per cinquant’anni cappellano dell’Istituto penale minorile «Beccaria», da cui ha dato le dimissioni (lasciando il posto a don Claudio Burgio): ma si tratta di un passaggio più che altro formale, perché don Gino e don Claudio continuano a lavorare insieme, come fanno da quasi vent’anni. Ecco, il «Beccaria», che da qualche anno affronta situazioni di crisi interna, e dove è stato portato quel ragazzo, 17 anni, che nella notte di domenica ha ucciso la sua famiglia a Paderno Dugnano. Davanti ai magistrati ha detto di sentirsi oppresso da un «malessere», creando una sorta di corto circuito tra quella sensazione così comune e un fatto di sangue tanto atroce. È per provare a dare un contenuto a una discrasia così incolmabile, che bisogna ascoltare le riflessioni di don Rigoldi.
Cosa c’è, dentro quel malessere?
«In quello specifico di quel ragazzo, ribadisco, c’è un disturbo di ordine diverso. Ma un malessere lo hanno tutti gli adolescenti».
Da cosa deriva?
«Hanno bisogno che il proprio valore sia riconosciuto: dagli altri, dai genitori, dai compagni del proprio gruppo; ognuno occupa un posto, o più posti, e deve sentire che questi ambienti rimandano qualcosa. Se questi riconoscimenti non arrivano qualcuno di loro inizia a sentire di non valere».
Questo è un aspetto molto generale.
«Vero, ora caliamo questi meccanismi nella cultura che respiriamo ogni giorno: agli adulti, e soprattutto ai ragazzi, che sono meno strutturati, manda di continuo e soltanto messaggi legati a un qualche obbligo di avere successo. Fare strada, porsi obiettivi sempre più alti, soprattutto essere visibili. È una sorta di modalità educativa omologata e generalizzata, indipendentemente dagli obiettivi che vengono perseguiti e magari a volte raggiunti, compresi quelli assolutamente positivi, come studiare e andare bene a scuola».
Cosa si perde in questa omologazione?
«Il centro dell’educazione dev’essere la costruzione delle relazioni, di comunità, intesa nel senso più ampio del termine, che sia familiare, di coppia, di amicizia. La cura degli amori, che sono relazioni. Si pensa che gli obiettivi educativi siano sempre altri, e che poi la cura degli amori e delle relazioni venga naturalmente, quasi in modo scontato e automatico. E invece non è così».
Gli adulti hanno poca attenzione?
«Non è questo. Ce l’hanno. Ma l’adolescente deve sentirsi amato in maniera comprensibile per lui. Viviamo senza testa educativa, a tutti i livelli. “Devi imparare le lingue”, “studiare per trovare lavoro”, va benissimo. Ma chi dice ai ragazzi quanto è importante imparare a volersi bene e a voler bene? A creare comunità come luogo di crescita? Questo è il più grave peccato, ed è in questo vuoto che perdiamo rispetto al mito del successo».
Sarebbe sufficiente per curare il malessere?
«È l’unica strada. I ragazzi sono in mano a queste macchinette malefiche, che alimentano questa cultura del successo e del percorso da fare a tutti i costi, senza gli altri o sopra agli altri. Questo è il vero veleno. E non trovano qualcuno che si sieda vicino a loro per chiedere “come stai?”, “come stai con i tuoi amici?”, o che provi a insegnare come diventare “professionista” anche nelle relazioni. Spesso mi infurio con gli educatori: devono voler bene ai ragazzi in senso specifico, non generico».
Vale anche per i genitori?
«Senza dubbio, ma i genitori in qualche modo questa conferma di valore ai figli la devono dare per forza; serve che questo avvenga anche altrove. Comunque, tra la famiglia e gli altri ambienti, di educatori ce ne sono tanti, forse anche troppi, ma nessuno educa alla relazione. I ragazzi sono spesso belli, muscolosi, sorridenti, ben vestiti, ma tanto fragili. E rischiano di ritrovarsi soli, in un deserto di cinismo».