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 2024  settembre 05 Giovedì calendario

Mario Gramsci: bugie e verità sul fratello “fascista” di Antonio

Il Gramsci nero che il Pci ha condannato all’oblio e che la destra più estrema celebra come un eroe intitolandogli sedi e scandendo il suo nome ogni 25 aprile al cimitero di Varese dove è sepolto. Ricordato come il primo federale del PNF di Varese; come il volontario che andò in Etiopia a costruire l’impero; come il prigioniero rinchiuso in un campo di concentramento in Australia dopo essere stato catturato dagli inglesi in Africa settentrionale nel dicembre 1940 che mai, nonostante le torture, abiurò la sua fede fascista. Un camerata fedele fino all’ultimo a Mussolini che dalla prigionia australe aderì alla Repubblica sociale e che, tornato in Italia minato dalle malattie contratte durante la detenzione, morì da lì a pochi mesi, abbandonato dallo Stato in un ospedale di terz’ordine.
Una narrazione insistita, la dignità e l’orgoglio di un vinto a far da contraltare alla storia ben più nota del fratello comunista. Ma di quel che l’estrema destra racconta su Mario Gramsci (nato nel 1893, due anni dopo Antonio), non è vero quasi niente. Nei campi di prigionia australiani, prima Murchison e poi Myrtleford, dove rimase rinchiuso dall’ottobre del ’41 all’agosto del ’45, Mario Gramsci non subì nessuna tortura. Nelle lettere spedite ai familiari, conservate all’Australian War Memory, racconta anzi di ricevere un trattamento più che dignitoso. Nell’aprile del ’44, dopo un intervento per una doppia ernia, scrive di avere trovato un servizio ospedaliero eccellente e aggiunge che “nessuna clinica italiana mi avrebbe operato e trattato come hanno fatto qua”.
Non è vero neppure che andò in Etiopia a conquistare l’impero per spinta ideale. Fu una necessità. Aveva da poco fallito un’impresa commerciale: una spazzola di gomma brevettata e prodotta “per applicazioni domestiche e industriali” e che invece produsse soltanto una montagna di debiti. Così la carriera militare, cominciata con il grado di sottotenente nella Prima guerra mondiale, fu la scelta più logica per continuare a sbarcare il lunario. Lasciò a Varese una moglie, Anita Maffei Parravicini, una nobile per metà guatemalteca sposata nel 1920, e due figli, Cesarina nata nel 1921 e Giovanni nato nel 1929, e si ritrovò nello Uolcait, impervia regione nel nord dell’Etiopia, comandante con i gradi di capitano di una brigata irregolare che aveva il compito di dare la caccia ai ribelli. Testimonianze e documenti di quel che gli accadde laggiù si possono trovare nel Fondo Ellero, conservato alla biblioteca del Dipartimento di Storia, Culture e Civiltà dell’università di Bologna. Se la vide brutta nel dicembre del ’37, quando a capo di una cinquantina di uomini si ritrovò asserragliato in un fortino. I ribelli chiesero la sua testa, si salvò grazie alla mediazione di alcuni sacerdoti dopo aver ammainato la bandiera italiana e consegnato tutte le armi.
Sono bugie anche la fedeltà a Mussolini e l’adesione alla Repubblica sociale. Nel campo di concentramento australiano, subito dopo l’8 settembre del ’43, Mario Gramsci si dichiarò monarchico e antifascista e chiese di combattere contro i tedeschi. Il suo nome fu inserito nell’elenco dei cooperanti con il governo inglese. Si trova conferma di ciò non soltanto negli archivi dell’Australian War Memory, ma anche nel verbale dell’interrogatorio a cui Mario Gramsci venne sottoposto il 7 settembre 1945 a Napoli dalla Commissione per l’interrogatorio degli ufficiali reduci da prigionia di guerra, presieduta dal generale Ismaele Di Nisio. Il verbale è conservato all’archivio dell’Ufficio storico dello Stato maggiore dell’esercito.
Resta la domanda: Mario Gramsci fu veramente fascista? Sì, lo fu. Di stanza con il suo battaglione a Varese nel primo dopoguerra, si lasciò sedurre come tanti altri reduci dalle parole d’ordine dei sansepolcristi. Fu attivissimo nella costituzione del Fascio varesino, che ebbe la prima sede a poche centinaia di metri da casa sua. Sfogliando la cronaca prealpina, lo si trova citato in un articolo del 10 maggio 1921 relativo all’inaugurazione del Fascio di Varese. Toccò a lui fare da cerimoniere tra i vari interventi. Niente di più. Da nessuna parte viene mai citato come primo federale del PNF di Varese. La sua infatuazione per il fascismo si esaurì da lì a poco. Lo conferma lui stesso nell’interrogatorio dinnanzi alla Commissione di Napoli: “Sono stato espulso dal partito fascista nel 1921 perché fratello del comunista Gramsci”.
Li avevano visti insieme a spasso per la città. Antonio era andato a trovarlo anche per conoscere la cognata che stava per partorire. Scriverà nel settembre del ’27 dal carcere di San Vittore alla sorella Teresina: “Quando io sono stato a visitarlo, qualche anno fa, in casa sua, credo di essermi fatta un’opinione esatta su tutto l’ambiente in cui egli era una specie di eroe. Ma sono cose che è meglio non scrivere e d’altronde Mario è mio fratello e gli voglio bene nonostante tutto. Spero che adesso si occupi più delle sue faccende e che metta la testa a partito”.
L’ultima, ulteriore conferma che mette fine alla strumentalizzazione sul Gramsci nero è una lettera, finora inedita, emersa da archivio privato. Una lettera di quattro pagine che Mario scrive alla sorella Teresina il 10 novembre 1945, quindici giorni prima di morire. Si trova ricoverato da due mesi all’ospedale militare di Varese, colpito da tifo. Si lamenta della febbre che non scende e della testa che gira, ma è ottimista e confida di tornare a casa per Natale. E aggiunge: “Non so dirti l’impressione provata nello sbarcare in Italia. Io non ci capisco proprio niente, e forse è meglio. Tutti i nostri sacrifici di tanti anni, il sangue versato, i patimenti, e trovarmi conciato in questa maniera, senza una via di luce per il domani. E tutto per colpa del più gran brigante e vigliacco del secolo, e di tutti i suoi accoliti. Meno male che io dal fascismo ero fuori dal 1921, e l’unico riconoscimento che mi avevano dato, era quello di squadrista, senza infamia e senza onore”.
La lettera è conservata nel Fondo Gramsci-Maffei-Pecchenini. Il possessore, Marzio Govoni, collezionista di fotografia, l’ha ricevuta in dono, insieme a fotografie e cartoline che Mario Gramsci spediva alla famiglia dall’Africa, da Anna Pecchenini, amica intima di Cesarina, la primogenita di Mario morta a Varese nel 2005 all’età di 84 anni.