il Giornale, 5 settembre 2024
Estratto dal nuovo libro di Tony Blair
In una democrazia il capo del governo viene perlopiù nominato dal capo dello Stato o eletto dal Parlamento; governare non richiede altre (...)
(...) qualifiche: io divenni primo ministro senza avere alcuna precedente esperienza di governo. I leader non partono dalla gavetta, imparando lungo la strada e valutando obiettivamente le loro capacità: arrivano al potere e si arrangiano. Lo stesso vale per molti, se non la maggioranza, dei ministri, anche se dirigono grandi ministeri e controllano grandi budget. E tutto ciò vale anche per i paesi non democratici: la nuova leadership, quando si insedia, è contrassegnata dallo stesso scarto fra potere ed esperienza; e i ministri sono sulla stessa barca.
In qualsiasi altro ambito della vita, in settori che per il cittadino medio hanno molta meno importanza del governo, nessuno si sognerebbe una cosa del genere. La riterremmo irresponsabile, imprudente ed estremamente pericolosa.
Per essere onesti verso gli elettori, bisogna dire che non ci si può aspettare che essi abbiano un’idea precisa dell’idoneità a governare di chi eleggono. Hanno un’opinione generale, certo, e in democrazia scelgono su tale base.
Ma anche se un nuovo leader, quando entra in carica, manca di esperienza, e ne manca pure la sua squadra, può sempre rimediare all’irrazionalità intrinseca del sistema che l’ha portato lì. Ci sono copioni che può prendere in esame, lezioni chiare che può imparare. Anche se il viaggio è uno di quelli che non ha mai fatto prima, altri l’hanno fatto; ci sono mappe del percorso che si possono seguire, segnali di pericolo cui prestare attenzione, ed esperienze vissute che possono illuminare su ciò che governare comporta.
Un simile studio non può compensare l’assenza di leadership. Ma che un leader si formi studiando come altri, che hanno portato il peso della leadership, se la sono cavata, è certamente una buona cosa.
Ogni leader si trova ad affrontare l’arduo compito di ideare una strategia e una linea politica, di giungere a risultati, di mettere insieme la squadra giusta, superare gli interessi che ostacolano una riforma, portare la burocrazia dall’inerzia all’efficacia, guidare la nave dello Stato nel mezzo delle tempeste di eventi esterni.
Quali che siano le qualità naturali di un leader, quindi, dev’esserci spazio per le qualità che si possono apprendere, per le capacità tangibili di progetto e attuazione, oltre che per l’elemento più etereo del carattere.
La politica è in parte filosofia, in parte prestazione e in parte pragmatismo. L’ultimo fattore è il più banale, ma è quello che, alla fine, fa la differenza.
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Per la persona al vertice, fra essere leader e leadership c’è differenza. E di sicuro c’è differenza fra essere
«un leader» ed essere semplicemente uno che occupa la posizione di leader.
I leader arrivano alla leadership in molti modi diversi: alcuni per calcolo e altri per caso, alcuni grazie alle circostanze, altri a causa di una crisi e altri ancora per coraggio, e spesso per un amalgama di tutti questi fattori.
Solo pochi, tuttavia, meritano davvero la qualifica di «leader», cioè esercitano, una volta al potere, quella che chiamiamo, elogiativamente, una leadership.
Una conclusione cui sono giunto è che gli attributi della leadership sono gli stessi ovunque la si eserciti: alla guida di un paese o di una squadra di calcio, gestendo un’azienda o un’organizzazione di qualsiasi tipo, che si tratti di un negozio o di un centro ricreativo.
Un leader fa un passo avanti quando gli altri ne fanno uno indietro. Il mantello della responsabilità passa di mano, e il leader lo prende volentieri sulle sue spalle. Sì, a volte lo porta con eleganza e a volte lo afferra prima che qualcun altro s’avvicini! Ma in entrambi i casi, e in quelli intermedi, è pronto a indossarlo.
Tutto ciò, però, mette semplicemente nella posizione di leader. Essere «un leader» significa qualcosa di diverso.
I leader hanno il coraggio di non seguire la corrente. Parlano ad alta voce quando altri restano in silenzio. Agiscono quando altri esitano. Sono disposti a correre rischi, non perché non li riconoscano come tali, ma perché credono che uno scopo più alto imponga loro di assumerne.
Sono pronti a dire ciò che va detto, anche ai propri sostenitori.
Quest’ultima è una componente essenziale della leadership politica, senza la quale si conclude ben poco. Ogni politico dotato di un minimo di intelligenza sa che cosa il suo pubblico vuole sentirsi dire. Dirlo è quindi facile: è facile lusingare la folla, scaldarsi al suo calore e alle sue lodi, eccitarla, osservare come segue ogni vostra cadenza, ogni vostro gesto, come reagisce al ritmo del vostro discorso, alla sua intensità, godere delle valanghe di applausi e segni di approvazione. Da sempre i politici tengono discorsi del genere, pronunciano battute del genere, e adesso tali richiami alla fedeltà li twittano in duecentottanta taglienti caratteri.
Questa politica performativa ha il suo ruolo. Pochi leader sopravvivrebbero senza simili momenti. E crearli richiede talento. Ma non è la stessa cosa della leadership.
Affrontare una folla che si aspetta di essere compiaciuta ed essere pronti, invece, a contrariarla. Dire la verità anziché snocciolare slogan. Persuadere, non ammansire il pubblico che non è spontaneamente dalla vostra parte, e, con chi è dalla vostra parte, rivolgersi alla testa e non al cuore.
La disponibilità a caricarsi sulle spalle non soltanto il mantello, ma anche ciò che comporta indossarloseriamente: la critica come l’adulazione, l’obbligo di prendere decisioni e non limitarsi a discutere di assumere iniziative concrete, non solo appariscenti, di fare avanzare il paese e non lasciare tutto com’è, di agire e non accontentarsi di mere analisi, di risolvere i problemi e non semplicemente esporli.
E andare avanti anche quando la sconfitta sembra non meno probabile della vittoria; compiere ritirate tattiche, ma mai strategiche.
Questa è leadership.
Come lo è rendersi conto che obiettivo di un leader non è dare alla gente ciò che vuole.
Vi sorprende questa idea? Specie nel caso di un leader politico?
La politica non consiste nel fare quel che «la gente» vuole?
No. Un’idea così sorprendente necessita di un chiarimento. Certo, l’obiettivo è migliorare la vita delle persone. Farle stare meglio, renderle più felici, più in grado di realizzare i propri sogni e le proprie aspirazioni.
Ma questo non equivale a dare alla gente quello che vuole in questo o quel momento, cavalcare sempre e comunque l’onda dell’opinione pubblica e cercare di soddisfarla, studiare i sondaggi e comportarsi di conseguenza, acconsentire a ogni richiesta invece di valutarne la ragionevolezza, misurare la validità di un punto di vista dalla veemenza con cui viene espresso.
Il leader deve pensare a ciò di cui la gente ha bisogno, non meramente a ciò che vuole. Altrimenti, non è che un follower.
Mi piace una vecchia battuta di Henry Ford. Quando gli fu chiesto che cosa pensasse del fatto di dare alla gente quello che voleva, rispose: «Se avessi chiesto alla gente che cosa voleva, avrebbe detto cavalli più veloci». Non diversamente, Steve Jobs ha osservato: «Non puoi limitarti a chiedere ai clienti che cosa vogliono e cercare di darglielo; quando l’avrai fabbricato, vorranno qualcosa di nuovo».
Ciò che vale nel mondo degli affari vale anche in politica.
Ritenere che tutto questo sia elitario significa fraintendere alla base il corretto rapporto fra chi guida e coloro che vengono guidati. Il leader deve fare ciò che crede sia nell’interesse della gente. Se alla fine essa non lo gradirà, lo manderà a casa.
Ma il compito di una guida è guidare.