la Repubblica, 5 settembre 2024
La Germania sotto shock processa Volkswagen
A settembre del 2015, era difficile per un cronista italiano non strabuzzare gli occhi. Alla fine della prima, affollatissima riunione del consiglio di fabbrica di Volkswagen dopo lo scandalo “Dieselgate” – una sorta di seduta psicanalitica collettiva – Bernd Osterloh aveva distribuito magliette con una scritta, “Una squadra. Una famiglia”. E accanto al logo della Vw, c’era quello del più grande sindacato metalmeccanico d’Europa, IGMetall. Azienda e operai si erano stretti a Wolfsburg in un abbraccio disperato per affrontare l’accusa al management di aver ordito la più grande truffa della storia dell’auto: quella dei motori truccati. Un escamotage per aumentare le prestazioni nonostante i vincoli ambientali e mantenersi a galla in un mercato difficile: quello statunitense. La bufera aveva travolto Vw, lambendo però tutto il mercato europeo dei produttori di auto diesel. Tanto che dalla Germania, in quei giorni, si era sparsa persino la voce di un complotto degli americani per danneggiare le concorrenti europee.Da allora sono passati nove anni, ma sembra un altro secolo. Nei giorni scorsi, Vw è stata costretta a una mossa scioccante. Per la prima volta nella sua storia, ha annunciato che per tagliare dieci miliardi di costi sarà costretta a valutare la chiusura di uno o più stabilimenti in Germania. E a cancellare l’accordo con i sindacati per una tregua occupazionale fino al 2029. Il clima in azienda è precipitato, anni luce dall’abbraccio tra i vertici e i sindacati che segnò il post- Dieselgate delle magliette solidali. E al consiglio di fabbrica di ieri si è consumato uno scontro frontale tra i top manager e le rappresentanzesindacali. Il capo della finanza Arno Antlitz ha cercato di giustificarsi: «In Europa si vendono due milioni di auto in meno che prima del Covid». E «siamo corti di 500mila vetture, che equivalgono alla produzione di due stabilimenti». Il mercato, ha confessato, «è sparito», e «abbiamo due anni per prendere la rotta giusta». Fischiatissimo, ha dovuto cedere il palco alla “pasionaria” Daniela Cavallo, erede di Osterloh, capa del consiglio di fabbrica, che non ha usato giri di parole: «Questo è tutto ciò che vi viene in mente? Chiudere fabbriche e tagliare?». E ai cronisti, ha consegnato parole nettissime: «Mai nella vita» consentirà la chiusura di fabbriche in Germania. Contro le decisioni del management, ha aggiunto la figlia di immigrati calabresi, ci sarà «una resistenza strenua». Negli stessi minuti, il capo di IgMetall della Bassa Sassonia, Thorsten Groeger, consegnava una sveglia ai manager pietrificati sul palco. E il messaggio era: se non vi svegliate voi, vi sveglieremo noi.Ormai la tragedia Vw sembra una metafora dei peggiori difetti dell’industria tedesca: ritardo sulle grandi trasformazioni tecnologiche, mancanza di visione, arroganza. E nelle stesse ore in cui si consumava la rottura tra operai e azienda a Wolfsburg, a una quarantina di chilometri, l’amministratore delegato la cui testa era finita sul patibolo per il Dieselgate, Martin Winterkorn, è apparso a processo a Braunschweig. Pallido come un fantasma, visibilmente invecchiato e malfermo sui piedi. E ha ribadito la tesi della sua innocenza.«Non è compito di un membro dei vertici di occuparsi personalmente di singole sfide che riguardino lo sviluppo tecnico», ha fatto sapere. Lui si occupava di questioni strategiche, «di interessi essenziali per la Germania». E non entrava, insomma, nei dettagli tecnici della fattura dei motori. Una linea difensiva che fa a pugni con quello che persino gli uscieri sapevano, a Wolfsburg. Winterkorn era un maniacale ispettoredel prodotto finito, misurava lo spessore della vernice o gli spazi tra portiera e cornice. Un perfezionista. E la procura, infatti, non gli crede. Al più tardi dal 2014, sostiene, lo “chef” era al corrente dei motori manomessi. L’era di Winterkorn è tramontata da un pezzo, quella del motore a scoppio condannata a morte, e quasi non si sente più parlare della famiglia Porsche-Piech. Soprattutto da quando il “vecchio” Ferdinand, il nipote dell’inventore del maggiolino, il patriarca abituato a licenziare i manager con una subordinata o un colpo di tosse e che garantiva all’azienda ancora un’aura shakespeariana, è morto nel 2019. Da allora Volkswagen ha indubbiamente perso smalto. Soprattutto: ha mancato l’aggancio con un mercato in piena rivoluzione elettrica. E pensare che a rinfacciarglielo per primo, pubblicamente, fu il primo ministro verde della storia tedesca, Robert Habeck.Cinque anni fa, l’allora capo degli ambientalisti contestò all’amministratore delegato di Vw, Herbert Diess, la strategia miope di sviluppare l’elettrico anzitutto nelle auto da 100mila euro. «Se entro il 2025 non offrirete un modello elettrico che costi meno di 20mila euro, temo che fallirete», lo avvertì. Una profezia facile, in un mondo in cui la Cina e le big americane correvano già per accaparrarsi le fette più ghiotte di mercato. Ma Habeck fu travolto dalle critiche. Come il ministro dell’Economia dell’epoca, il conservatore Peter Altmaier, che durante una famose riunione con i cinque “big boss” dell’auto aveva sbottato «ma non siete in grado di sviluppare una macchina elettrica sexy?». Ogni riferimento alla Tesla era puramentecasuale.