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 2024  settembre 05 Giovedì calendario

Rigivan Ganeshamoorthy, con una semplice battuta, infrange secoli di tabù sugli handicappati

«Questo mondo sta cominciando a piacerle di più?» «Ma sì dai, un po’ troppi disabili…» Buttando lì quella battuta irresistibile e sdrammatizzante dopo aver vinto la medaglia d’oro alle Paralimpiadi di Parigi, Rigivan Ganeshamoorthy detto «Rigi», il discobolo romano figlio di immigrati dello Sri Lanka che ha battuto tutti migliorando per tre volte il record mondiale a dispetto della sindrome invalidante di Guillain-Barré e delle cannule di ossigeno nel naso, ha spaccato col suo disco un tetto di cristallo che incombeva da millenni. 
Dice tutto un bassorilievo greco dove Era, come narra nell’Iliade Omero (lui pure cieco e disabile) scaglia con Zeus giù dall’Olimpo il povero Efesto, reo d’essere nato storpio e raccolto in mare dalle Nereidi: «Ella malconcio / E afflitto mi salvò quando dal cielo / Mi fe’ gittar l’invereconda madre, / Che il distorto mio piè volea celato». Quella è stata, troppo a lungo, la maledizione: bastava un piede storto per segnare una vita. Non solo nella cultura ellenica, dove perfino Platone si spinse a teorizzare che i figli nati «fisicamente deformati» fossero «nascosti per ragioni di convenienza in un luogo inaccessibile e sconosciuto». Ma prima ancora, come scrisse il traduttore del Codice di Hammurabi Jean Bottéro, in quella mesopotamica: «Più di una volta si giunse al punto che alcuni genitori, provati o perplessi dopo la nascita del loro bambino, gli diedero come nome proprio un appellativo che riflette questa ossessionante questione: “Mîna-arni”: “Qual è il mio peccato?”». Un’idea scesa giù per i secoli dentro la stessa cultura ebraica e cristiana (Levitico: «Il Signore disse ancora a Mosè: parla ad Aronne e digli: “Nelle generazioni future nessun uomo della tua stirpe, che abbia qualche deformità, potrà accostarsi ad offrire il pane del suo Dio…”») al punto che solo nel 1983 Papa Giovanni Paolo II, pare impossibile, avrebbe rimosso il divieto ai disabili di dire messa. 
E se era stato Dio a maledire con una disabilità i figli del peccato (perfino nel mito vichingo il condottiero Ívarr Ragnarsson «Senz’ossa», figlio di Ragnarr Loðbrók nacque lesionato perché i genitori avevano violato una prescrizione) come potevano i nostri antenati non cercare di nasconderli agli occhi degli altri? E così è andata per tanto tanto tanto tempo. Basti ricordare a ridosso dell’Anno Mille «Ermanno il rattrappito» che, nato da un alto signore feudale tedesco e colpito da una gravissima malattia (forse la Sla) che gli impediva perfino di stare seduto, fu nascosto dalla famiglia in un convento dove avrebbe scritto il bellissimo Salve Regina (Salve, Regína / Mater misericórdiae / vita, dulcédo et spes nostra, salve...). O Emanuele Filiberto, il Savoia Sordomuto isolato nel Seicento dalla stessa madre Marie de Bourbon Soisson, cugina di Luigi XIV, che lo considerava «un castigo di Dio». E tanti altri ancora... 
Era così pesante, questo retaggio storico, che Antonio Gramsci fu testimone a cavallo del ‘900, come avrebbe rivelato in una lettera del ‘33 dal carcere alla cognata Tania intitolata «Il prigioniero», d’una visione terribile. La madre l’aveva mandato a fare una commissione a casa di una vicina e questa, presa alla sprovvista e costretta a sbrigare una faccenda prima di uscire, s’era tirata dietro il bambino: «Mi condusse fuori del paese, in un orticello ingombro di rottami e calcinacci; in un angolo c’era una costruzione a uso porcile, alta un metro e venti, senza finestre o sportelli, con solo una robusta porta d’ingresso. Aprì la porta e subito si sentì un mugolio bestiale; c’era dentro suo figlio, un giovane di diciotto anni, di complessione molto robusta, che non poteva stare in piedi e perciò stava sempre seduto e saltellava sul sedere verso la porta, per quanto glielo consentiva una catena che lo stringeva alla cintola ed era assicurata a un anello infisso al muro. Era pieno di sozzura, solo gli occhi rosseggiavano come quelli di un animale notturno. La madre gli rovesciò in un truogolo di pietra il contenuto della sporta, del mangime misto di tutti gli avanzi di casa e riempì d’acqua un altro truogolo, poi chiuse e andammo via. Non dissi niente a mia madre di ciò che avevo visto, tanto ero rimasto impressionato e tanto ero persuaso che nessuno mi avrebbe creduto». 
Così andava ancora, in certe aree d’Italia, poco più di un secolo fa. Né era poi così diverso, nel ‘900, in altre parti del mondo. Basti ricordare storie emblematiche come quella di Pearl Buck, la celebre scrittrice premio Pulitzer e poi premio Nobel per la letteratura che solo dopo molti anni si decise a rivelare la sua drammatica scelta di affidare la figlia Carol, nata con un pesante deficit mentale, a una struttura ospedaliera del New Jersey. O l’ultima e amara visita di Albert Einstein nel 1933, prima di partire per gli Stati Uniti in seguito alla presa del potere di Hitler, al figlio Eduard ricoverato in una clinica di Zurigo perché affetto da schizofrenia: si era portato il violino per tentare di «dialogare» in un concerto al pianoforte, ma fu inutile, i rapporti erano ormai compromessi e non si sarebbero rivisti mai più. O ancora la straziata decisione del grande Arthur Miller («Provai un’ondata d’amore per lui. Non osai toccarlo, per paura che avrei finito per portarlo a casa. E piansi») di rinchiudere il figlioletto down, Daniel, in un istituto del Connecticut. Difficile capire, impossibile giudicare. 
Certo è che tutti coloro che, sempre più negli ultimi decenni, hanno deciso di spezzare le catene degli antichi pregiudizi e uscire dalle prigioni culturali allo scoperto mostrando la disabilità dei propri cari (Robert De Niro col figlio autistico Elliot, Jamie Foxx con la sorella down Deondra, Colin Farrell col figlio James affetto dalla sindrome di Angelman...) e più ancora le disabilità proprie, dallo sciagurato Oscar Pistorius al campione di salto tedesco Markus Rehm alla nostra amatissima Bebe Vio, hanno un debito di riconoscenza almeno per due figure che per prime infransero il muro del silenzio e del segreto. 
Uno fu Charles de Gaulle, lo statista francese che, fiero e alto quasi due metri, si fece fotografare in spiaggia, su uno sdraio, in giacca, cravatta, cappello, mentre teneva sulle ginocchia la sua adorata figlioletta down, Anne, su cui avrebbe scritto una struggente epigrafe: «Nella casa del Padre Anne troverà infine tutta la sua taille (la sua dimensione) e tutta la sua felicità». L’altra fu la grande artista messicana Frida Kahlo, la prima ad avere il fegato, in quei tempi, di farsi degli autoritratti in cui mostrava tutta la sua fragilità: la cerbiatta ferita, la carrozzina su cui era inchiodata, la colonna vertebrale spezzata... Il ritratto più bello di lei lo fece, con le parole, lo scrittore messicano Carlos Fuentes: «Ha subìto trentadue operazioni ed è eternamente circondata da bende, aghi, pungente odore di cloroformio… Eppure incanta tutti, dura come l’acciaio e delicata come l’ala di una farfalla». Proprio come tanti atleti paraolimpici che a Parigi stanno dando il cuore al mondo. Vincendo la sfida, apparentemente impossibile, di scherzare sul loro destino.