Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2024  settembre 04 Mercoledì calendario

Intervista a Antonio Sellerio, editore

«Leggere il mio nome legato a uno dei maggiori scrittori del Novecento è motivo di straordinario orgoglio». Nella categoria dedicata all’editoria del Premio Pavese, il vincitore di quest’anno è uno tra i più importanti editori italiani: Antonio Sellerio. Insieme agli altri illustri protagonisti di questa edizione, la quarantunesima, Sellerio sarà premiato a Santo Stefano Belbo domenica 8 settembre.
Antonio Sellerio, da editore, che libro di Cesare Pavese le sarebbe piaciuto pubblicare e perché?
«Non riesco a immaginare un singolo libro separato dal resto dell’opera e soprattutto non riesco a immaginare l’opera pavesiana fuori dal catalogo Einaudi. Ci sono occasioni in cui l’ambizione dell’editore si ferma di fronte alla affezione del lettore».
Che significato ha per lei, oggi in particolare, con un mercato così complicato e quasi per nulla meritocratico, essere e fare l’editore?
«Io non credo che il nostro mercato non sia meritocratico, ci sono scrittori che hanno il merito di gestire al meglio i loro social, altri che sono capaci di intervenire con puntualità sulla notizia del giorno, altri ancora che hanno l’abilità di entrare in relazione profonda con i loro lettori riuscendo a coinvolgerli nelle motivazioni profonde della loro opera, e ci sono quelli che si affidano esclusivamente alle loro pagine, alla lingua, al proprio talento di costruire storie. Ognuna di queste abilità è un merito, ed è forse il doversi districare in un contesto pronto a reagire a stimoli così diversi che rende molto complicato il mestiere dell’editore».
Ha mai desiderato, visti soprattutto i suoi natali, fare qualcosa di diverso nella vita?
«Francamente no. Ho vissuto sin da bambino con gli entusiasmi e le angosce editoriali dei miei genitori, e credo che a un certo punto mi si ponessero solo due nette alternative: la più profonda adesione o il radicale rifiuto. Sono felice di aver percorso la prima».
Pavese come Fenoglio come Calvino rimandano a Einaudi. Cosa resta in questo mondo (editoriale e non solo) di quel mondo lì?
«Cosa resti di quel mondo lì è difficile da dire…»
Pubblicare, leggere, scrivere: in che relazione si muovono queste tre attività nella sua professione e nella società?
«A volte mi chiedo come sia possibile, ma queste tre attività restano al centro della vita del nostro Paese. Sono convinto che i libri che vengono letti finiscono per influenzare non solo le vite dei lettori, ma anche quelle di chi non legge. Ed è per questo motivo che considero il mestiere dell’editore come una grande responsabilità, prima ancora che verso gli scrittori che mi affidano i loro libri, verso i lettori che quei libri li leggeranno».
Tra tutti i temi di Cesare Pavese ce n’è uno, a suo avviso, che risulti oggi particolarmente contemporaneo?
«Credo che mai come adesso il tema della solitudine sia così centrale, in particolare presso i giovani, almeno a giudicare da cosa leggono. Tendono sempre a prediligere romanzi che raccontano il disagio di vivere all’interno della propria comunità, della propria società».