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 2024  settembre 04 Mercoledì calendario

Intervista a Luca Guadagnino, regista

Lido di Venezia – Il viaggio è iniziato tanto tempo fa, quando Luca Guadagnino ha scoperto, a 17 anni, l’universo di William S. Burroughs, le sue infinite suggestioni, la sua «qualità iconica»: «Ho letto il libro e ho capito che fino a quel momento non avevo fatto altro che cercarlo. La mia immaginazione si è agganciata alle sue parole, ho pensato che, attraverso Burroughs, avrei potuto provare a scalare il muro della mia creatività». Ieri alla Mostra è stato il giorno di Queer, tratto dal romanzo del vate della beat generation, interpretato da Daniel Craig e Drew Starkey, girato come una storia d’amore psichedelica dove lasciarsi andare è d’obbligo, senza paure, senza inibizioni: «Ho voluto raccontarla perché l’ho trovata bellissima nella sua purezza semplice e universale. È qualcosa che ognuno di noi può dire di aver vissuto».Ha scelto Daniel Craig, campione di machismo cinematografico, per interpretare il protagonista, lo scrittore omosessuale folgorato dall’incontro con il giovane Eugene Allerton. Perché proprio lui?
«Trovo che, anche nei film in cui è stato James Bond, Daniel abbia sempre espresso, insieme alla virilità, una grande delicatezza. È un attore straordinario, un uomo romantico, caloroso, di una simpatia irresistibile. Quando ho detto che volevo lui e mi ha risposto di sì, non riuscivo a crederci, ho pensato di aver avuto una grande fortuna. Credo che sia uno dei migliori attori della sua generazione».
Come è andata sul set?
«Tra di noi è nata una grande amicizia, ho capito subito, fin dall’inizio, che la dedizione di Daniel sarebbe stata totale, che aveva colto perfettamente la profondità del suo personaggio. Penso che abbia reso in modo davvero stupefacente la vulnerabilità e il candore di William Lee».
Sesso esplicito, a più riprese. Qualcuno potrebbe avere da ridire. Lei come risponderebbe?
«Quando la mattina ci alziamo dal letto siamo nudi e così quando andiamo a dormire. Viviamo, facciamo le nostre cose, confrontandoci tutti i giorni della nostra esistenza con la corporeità. Scandalizzarsi di questo è evidentemente sintomo di qualche nevrosi e io spero di non essere nevrotico. Non mi sono mai posto problemi di morale, non mi interessano. Queer per me è una profonda, radicale storia d’amore che ci riporta alla condizione terminale di essere umani, cioè alla solitudine».
Nel racconto, ambientato negli Anni 50, in Sudamerica, il tabù dell’omosessualità appare ancora molto presente. In che misura, oggi, le cose sono cambiate?
«Se c’è un tabù è la paura che anima ognuno di noi nel confronto con l’altro. Siamo sempre terrorizzati nel momento in cui ci avviciniamo all’altro, e non conta se siamo etero o omosessuali».
Borroughs è tra le voci più significative della beat generation. In che modo ha trasferito nel suo film questa caratteristica?
«L’ultima frase che Burroughs ha scritto nel suo diario personale è “how can a man who sees and feels be other than sad?”. Ecco, nell’adattare il suo romanzo abbiamo cercato di rispondere a questa invocazione pudica, firmata dall’uomo che è stato il grande iconoclasta della cultura beat. Volevamo rendere il tono picaresco, molto divertente, molto romantico, e anche molto rivoluzionario del viaggio che Lee e Allerton compiono insieme. Dove “rivoluzionario” significa essere giovani e sognare di fare qualcosa di nuovo, che nessuno ha mai fatto prima».
È diventato un regista star, con molti fan, soprattutto tra i giovanissimi. Secondo lei da dove nasce questa predilezione?
«Amo il pubblico, ma non faccio mai film pensando ad altri, devo essere diretto, penso sempre solo al film che voglio girare e, in parte, a me stesso. Forse l’onestà che metto in quello che faccio, il fatto che sia abituato a lavorare senza difese, risuona negli spettatori, forse possono ritrovare nei miei film il piacere con cui li ho girati. A dire la verità sono tuttora molto stupito del fatto che qualcuno compri un biglietto per venire a vedere un mio film, del consumo culturale conservo un’idea astratta. Sicuramente faccio film personali, non legati alle esigenze dell’industria, non creati a tavolino come oggetti di commercio, ognuno è atipico, diverso, con le proprie speciali caratteristiche, ma, proprio per questo, continuo a stupirmi e a emozionarmi all’idea che le persone vadano a vederli».
L’altro giorno, qui alla Mostra, confuso nel pubblico, è andato a vedere il film di Pedro Almodovar La stanza accanto. Che effetto le fa essere in competizione con lui?«Grazie di questa domanda».Perché?
«Perché io sono sempre quel ragazzo che nel ’93 arrivò alla Mostra, a 22 anni, con il badge che danno agli studenti. Dormivo su un divano, a casa di gente sconosciuta, ospite di amici di amici di amici... non ricordo nemmeno dove fosse. Avevo in tasca l’equivalente di quello che oggi sono 100 euro e dovevano bastarmi per dieci giorni di Mostra, saltavo sui vaporetti, sempre senza biglietto, perché se lo avessi comprato avrei speso troppo. Mi alzavo prestissimo per arrivare in tempo alle proiezioni, ero sempre da solo, vedevo Kieslowski, Altman. Per tanti anni sono stato così, un ragazzo febbrile, solitario, appassionato di cinema».
E ora?
«Sono in cartellone con Pedro Almodovar, un cineasta che ammiro profondamente, penso di essere una persona fortunata, che è riuscita a coltivare le proprie passioni con calore umano, e, per questo, non do mai nulla per scontato».