La Stampa, 3 settembre 2024
Intervista a Peter Weir, regista
«Mi sono ritirato felicemente anni fa, il Leone d’oro alla carriera è un’occasione di guardarmi indietro: ho avuto una vita ricca e strana, perché per quanto si possa conoscere la propria arte, non si può dominare la Musa dell’ispirazione. Si può lasciare la porta aperta sperando che venga a trovarti, perché senza ispirazione non puoi entrare nel cuore di una storia. Per me l’ispirazione è sempre stata un mistero e l’ho accolta ogni volta con gioia». Peter Weir, 80 anni appena compiuti, regista australiano di capolavori come L’attimo fuggente e Truman Show, accetta il premio dalle mani del presidente della Biennale Pietrangelo Buttafuoco dopo che un emozionatissimo Ethan Hawke, che aveva esordito a 17 anni proprio in L’attimo fuggente, ha ricordato come il suo cinema abbia ispirato varie generazioni di cineasti. «Venire qui dall’Australia dove vivo felicemente, è un dono, perché Venezia e l’Italia, con tutta l’arte che hanno da offrire, mi ricaricano d’energia» dice in un’emozionante masterclass in cui decine di giovani gli chiedono consigli su come affrontare il proprio futuro, più che mai incerto, e lui come il professor John Keating li invita a non avere paura.Che ha significato per lei L’attimo fuggente?«Scelsi di ambientarlo nel 1959 perché erano gli anni in cui avevo l’età degli alunni del film e frequentavo lo Scots College in Australia. Sapevo che così avrei potuto calarmi nei loro panni e raccontare la mia esperienza. Per me è stato come rivivere la giovinezza».Robin Williams non c’è più. Come vorrebbe ricordarlo?«Parlavamo ore nella sua stanza di hotel per costruire il suo personaggio. Era molto serio, ma quando arrivava il servizio in camera non tratteneva il proprio talento comico e improvvisava uno show facendo ridere tutti. Gli chiesi di inibire questo suo lato stravagante e per lui fu come mettersi per la prima volta a nudo sul set».Cosa consiglia a chi vuole oggi fare cinema?«Consiglio di disconnettersi, perché siamo invasi da troppa informazione, di fare esperienze, imbarcarsi su un mercantile, permettere all’immaginazione di crescere. Di prendere carta e penna e scrivere idee, pensieri, racconti. La nostra mente è molto più creativa di Internet, ma va allenata».Non si è mai pentito di aver lasciato il cinema nel 2010?«No, anche se ci è voluto un po’ di tempo a disintossicarsi. Passo il mio tempo leggendo, sono un vero e proprio divoratore di libri, soprattutto di storia, ma anche guardando film e apprezzando i piaceri della vita, o semplicemente pensando».Non ha mai pensato di tornare, magari come produttore?«No perché probabilmente sarei un despota e non permetterei a un giovane regista di esprimere la sua personalità. Ma questo è proprio ciò che si chiede ai giovani. È il loro momento, come io ho avuto il mio».Ha un film preferito tra i tanti che ha girato?«Ne ho diversi a seconda dei momenti della vita. Ho pensato di recente a Fearless, film su un disastro aereo che hanno visto in pochi. È su quel set che ho avuto il mio momento più complicato con un attore. Rosie Perez aveva una scena emotivamente devastante e mi disse che poteva farla una volta sola. Mi feci aiutare da Jeff Bridges per fargliela ripetere, e quando lei, dopo averla rifatta, mi disse che le sembrava finta, le risposi che recitare è ripetere una scena ricordando ciò che hai provato al primo ciak».Come è stato il suo rapporto con gli attori?«Buono, per esempio sarebbe stato difficile girare Un anno vissuto pericolosamente, se Sigourney Weaver e Mel Gibson non fossero andati così d’accordo. Mi ha aiutato l’avere iniziato recitando: scrivevo e interpretavo sketch comici alla Monty Python all’Università e anche quando ho capito che ero migliore come regista, l’esperienza mi ha aiutato a immedesimarmi in chi sta dall’altro lato della cinepresa».