La Stampa, 3 settembre 2024
Intervista a Rigivan Ganeshamoorthy, atleta
Parigi – «E che ve devo dì?». Sono bastati pochi minuti di intervista a Rigivan Ganeshamoorthy per contagiare tutta l’Italia con il suo sorriso e il suo accento romanesco. Il 25enne, nato nella capitale da genitori dello Sri Lanka, è riuscito domenica sera nell’impresa di conquistare l’oro nel lancio del disco F52 alle Paralimpiadi di Parigi, inanellando ben tre record del mondo. Una vittoria che dai microfoni di Rai Sport, tra l’impacciato e l’ironico, il ragazzo ha dedicato soprattutto alla “Nazione” e a “tutti gli altri disabili che sono a casa”. Affetto dalla sindrome di Guillan-Barré, una neuropatia che gli è stata riscontrata a 18 anni, l’atleta ha portato la sua esperienza come testimonianza. «Lo sport per me è stata una rinascita, mi ha dato la possibilità di non pensare a cose negative». Eppure, tra i tanti messaggi di affetto e stima ricevuti, c’è stato anche chi lo ha attaccato per il colore della sua pelle. «Vabbè gli ignoranti sono loro, a me scivola addosso».Come sta vivendo questo successo mediatico?
«Non sono abituato e sinceramente non mi piace tanto. Sono sempre stato riservato, e adesso mi ritrovo travolto da questa onda, con tutte queste interviste. Ma alla fine, anche su consiglio di altri atleti, mi sono buttato, seppur con un po’ di disagio».
I suoi genitori sono venuti a Parigi?
«Mia madre sarebbe voluta venire e farmi una sorpresa, ma mio padre che lavora in un cantiere navale a Fiumicino non ha ottenuto i permessi. Mi hanno seguito da casa e a me basta quello».
Commovente la dedica della sua vittoria.
«Ce ne sono tanti di disabili in Italia e io certe cose le ho vissute sulla mia pelle. Quando sei ricoverato conosci ragazzi e ragazze con problemi, ma anche le loro famiglie. Sono persone che purtroppo non hanno amicizie. Adesso utilizzo una brutta espressione, lo so, ma veniamo schifati perché c’è chi è su una carrozzella o chi magari ha il catetere con la sacca delle urine. Siamo come tutti gli altri, però veniamo discriminati per una disabilità che non abbiamo voluto. Ce la siamo ritrovata e ce la teniamo».
Un problema in cui si è ritrovato anche lei?
«Io per fortuna ho degli amici che mi vogliono bene, poi con il mio carattere solare faccio sempre amicizia. Ma ce ne sono molti che non hanno la forza di reagire. Io incito sempre quelli che conosco a fare sport, anche se ce ne sono alcuni che sono tosti e non si lasciano convincere. Forse dopo questa mia vittoria hanno capito cosa volevo dirgli. Perché si può parlare quanto si vuole ma senza risultati come si fa a essere credibili?».
E lei con questo successo ne ha acquistata tanta di credibilità.
«Porterò la medaglia, farò sentire il peso e il significato per far capire quello che volevo dire. Lo sport riabilita le persone. Ti appaga. Per questo ho dedicato l’oro agli altri. Io ho fatto solo l’atleta, ma dietro di me ci sono state molte persone che mi hanno assistito, mi hanno aiutato e hanno creduto in me. E questa vittoria è per loro».
Intanto sta ricevendo molto calore.
«E molti messaggi, tutti molto belli. Una ragazza straniera ad esempio mi ha scritto spiegandomi che anche lei è affetta dalla sindrome di Guillan-Barré e non riesce a fare nulla. Le ho consigliato di buttarsi, di fare quello che vuole e non pensare al rischio di fallire. Alzarsi la mattina, mangiare e lavarsi i denti è già una vittoria. Ce ne sono tanti che non possono fare nemmeno quello».
Che ruolo svolgono in questo senso le Paralimpiadi?
«Mandano un importante messaggio di sensibilizzazione. Io stesso ricordo di quando ho sentito parlare per la prima volta di Bebe Vio, in occasione dei Giochi di Rio nel 2016. Vidi quella ragazza con il sorriso smagliante sebbene fosse senza gambe e senza braccia. A quel punto ti chiedi cosa può provare una persona così, poi rifletti su te stesso, sul fatto che hai tutto e nonostante questo ti fai pesare la vita. Sensibilizzare significa proprio questo».
Anche mandare un messaggio di parità.
«Noi disabili possiamo essere alla pari con i normodotati e non dobbiamo venire discriminati perché possiamo fare le loro stesse cose. Ovviamente con un po’ di difficoltà. Però siamo sullo stesso livello».
Pensa che l’Italia sia un Paese abbastanza inclusivo?
«A livello sportivo mi sono trovato sempre bene. Certo, a volte ci si perde in tante piccole cose. Penso ad esempio a Niccolò, un mio amico cieco che vive a Focene, fuori Roma, deve ogni volta farsi una sessantina di chilometri per allenarsi. O mancano gli impianti o quelli esistenti sono difficilmente raggiungibili».