la Repubblica, 3 settembre 2024
Lenin. Il tradimento di Stalin
Era rimasta aperta soltanto la “fortochka”, la finestrella per il cambio dell’aria in alto sul vetro buio. Il drappello cosacco incaricato della sicurezza se n’era andato, battendo gli stivali al passo sulla neve ghiacciata davanti ai bambini chiusi nei “tulup” di montone, abbottonati fino al collo. Anche le guardie che per 9 mesi avevano presidiato l’interno svolgendo qualsiasi compito agli ordini di Marija Ilinichna, la sorella di Lenin, erano rientrate nei loro reparti e nel loro vero ruolo di agenti della Ghepeù.Poiché Nadezhda Krupskaja, la vedova, si era fermata a Mosca dopo i funerali, a Gorkij la casa non era più sotto la sorveglianza speciale del Cremlino, che aveva sempre monitorato ogni visita, qualsiasi discorso, e anche le passeggiate con gli ospiti nel parco. Sembrava improvvisamente abbandonata, dopo che per due anni si era trasformata nel tabernacolo della rivoluzione, con la custodia del suo simbolo morente ed eterno. Tutto era tornato in mano alle due domestiche fedeli di Vladimir Ilic, Sasha Vorobjova e Sasha Sysoeva: adesso, dopo aver riordinato la stanza al secondo piano dov’era morto Lenin, consegnata come ricordo al comandante Pakaln la sua giacca da caccia in pelle di cavallo, avevano distribuito agli inservienti le patate spedite dai contadini al Capo malato per sostenerlo col cibo, quindi erano uscite a chiudere definitivamente il cancello attraversato per giorni dagli uomini di vertice dell’Urss. Poi, visto che tutto era davvero finito, facendo borbottare l’acqua nel profumo bruciato di pigne secche avevano acceso il samovar di Ilic, cui nessuno si era più avvicinato nei giorni del lutto, con il tè e il miele presi per l’ultima volta dalla scatola verde di latta che lui portava con sé quando doveva viaggiare.
L’esplosione emotiva dei funerali aveva trasportato ogni cosa in pubblico, dolore, paura, dubbi, giuramenti e domande, quasi annullando la dimensione privata della morte. Ma tra la piazza e la famiglia c’era ancora un soggetto che doveva elaborare il suo addio a Lenin, e incassare la quota maggiore di cordoglio popolare: il partito, che coincideva con tutto, lo Stato, il governo, il Paese, la rivoluzione, come testimoniavano le due bandiere dell’Internazionale Comunista e del Comitato Centrale che entravano nel Mausoleo appoggiate alla bara. Nadezhda parlò davanti al silenzio frastornato dei 50 membri del CC, senza la loro guida storica: «Compagni, il nostro amato fratello Ilic è morto. Il suo cuore batteva di un amore ardente per tutti i lavoratori. Voleva il potere per la classe operaia, ma non perché questa potesse organizzarsi un’esistenza felice: sapeva che il compito storico della classe operaia è la liberazione di tutti gli oppressi. Compagni operai e operaie, compagni contadini e contadine, lavoratori del mondo intero, radunatevi sotto la bandiera di Lenin, l’insegna del comunismo».
Una seduta spettrale, con il partito che sembrava paralizzato, orfano ed erede nello stesso tempo, ma stordito dal lutto. In nome della vecchia amicizia con Vladimir Ilic nell’esilio, ancora convinto di poterla convertire in moderna autorità, Grigorij Zinov’ev parlava dal pulpito invisibile del candidato alla successione, permettendosi di alternare i toni solenni («Lenin è morto, il leninismo vive, i rovi dell’oblio non copriranno la sua tomba che anzi diventerà sempre più cara a tutta l’umanità») al saluto personale: «Addio, caro padre e maestro. Ora le battaglie sono finite, vi è il riposo dopo le vittorie decisive. Dormi tranquillo, Ilic».
Finché alla tribuna arrivò Stalin, con gli stivali militari che portava anche d’estate e la giubba bianca a cinque bottoni, le due tasche sul petto e l’alto colletto caucasico, sicuro di sé come chi sa di aver già conquistato dall’interno l’anima di ferro del partito, la sua spina dorsale, la catena burocratica di funzionari d’apparato che avevano ormai come vero obiettivo la conservazione del potere. Lui era il Capo indiscusso di quella struttura invisibile, lo scheletro del comando, che apparentemente eseguiva gli ordini della direzione collegiale del partito, ma in realtà decideva, premiava e bocciava, votava: e ormai prevaleva. Stalin l’aveva costruita per linee interne, combinando un’alleanza con una promozione, una nomina con la devozione, un’infedeltà con la persecuzione, allargando la sua rete sulla struttura organizzativa, come se il potere fosse qualcosa di meccanico, assemblabile come una macchina, di cui lui era il motore immobile, capace nei due anni di inabilità di Lenin di spostare gli equilibri profondi senza scuotere la superficie del partito.
Adesso, morto Ilic che aveva cominciato a diffidare di lui fino a volerlo mettere da parte, era venuto il momento di raccogliere i frutti di quel lavorìo, regolando definitivamente i conti con l’unico vero avversario, Lev Trotzkij, per far sbocciare in pubblico la leadership staliniana alternativa, ora pronta a mostrarsi.
Quale occasione migliore del discorso di addio a Lenin? Ma nel dopo-Ilic il Segretario Generale non poteva più restare al riparo dell’apparato, doveva subito marchiare la nuova era, distinguendosi dagli altri. E il partito si accorse all’improvviso che il GenSek, lui solo, era padrone della mistica bolscevica, poteva cambiarla e ricrearla. Appena cominciò a parlare, di colpo il tono del cordoglio mutò, con un nuovo spartito modellato sulla liturgia sacra, recuperato nella memoria degli anni passati da Stalin in seminario a Tbilisi, in una salmodia a due voci che dopo aver garantito «noi comunisti siamo fatti di una materia speciale» ripeteva ad uno ad uno i precetti del leninismo e reiterava il giuramento di rispettarli: «Lasciandoci, il compagno Lenin ci ha comandato di salvaguardare l’unità del partito» («di rafforzare la dittatura del proletariato», «di rinsaldare l’alleanza degli operai e dei contadini», «di estendere l’Unione delle Repubbliche», «di essere fedeli all’Internazionale Comunista»). E ogni volta la risposta assicurava fedeltà: «Ti giuriamo, compagno Lenin, che adempiremo con onore a questo tuo comandamento». Con Stalin sacerdote del rito, il grande assente Trotzkij non era solo lontano: era escluso dalla sacralità di quel giuramento solenne che riformulava il patto della soggezione collettiva a un bolscevismo ormai staliniano, nel culto esteriore di un Lenin addomesticato, totemico ma inoffensivo, come il busto in bronzo di Ilic che il GenSek teneva in ufficio con un lumino sempre acceso alla base, quasi un’icona comunista.
Eppure erano ancora insieme, nell’immaginario popolare, Ilic e Lev Davidovic. La macchina staliniana si era messa immediatamente al lavoro cercando il modo di separarli, così da poter poi colpire Trotzkij liberamente. Lo trovò in una carta del 1913, quando Lev Davidovic aveva scritto una lettera contro Lenin perché sotto il suo comando il giornale bolscevico di Pietroburgo aveva “rubato” il nome Pravda al foglio che lui firmava a Vienna. Una lettera indignata, una delle tante liti di frustrazione tra fuorusciti. Appena Lenin morì, la Ghepeù la tirò fuori. Erano passati undici anni: ma le vecchie frasi di Trotzkij contro Lenin, nel ‘24 facevano ancora effetto, anzi facevano un effetto sacrilego e Ilic non poteva più precisare e bloccare la manovra. «L’uso che si fece di quella mia lettera – disse Lev Davidovic – appartiene alle più grandi frodi della storia. Terminata la preparazione segreta, a un segnale della Pravda si scatenò da tutte le parti la campagna contro il trotzkismo. Un’eruzione vulcanica». Rotta la coppia Lenin-Trotzkij, si poteva concentrare il fuoco su quest’ultimo: «Pronto a derubare i contadini», «Deciso a dividere il partito», «Disposto a schierare i giovani contro i vecchi bolscevichi», «Antileninista», «Frazionista» e infine «Bonapartista»: la vecchia accusa che aveva perseguitato Kerenskij. «Ogni riga, ogni parola era una menzogna, che lo colpiva nel profondo – raccontava la moglie, Natalija Sedova – Apriva un giornale, gli dava un’occhiata e lo buttava via. Sembrava che gli bastasse vederli per saperne il contenuto. Conosceva troppo bene i cuochi di quei cibi. E infatti diceva che leggere il giornale in quei tempi era come cacciarsi un dito in gola». Nel popolo disorientato sopravviveva il culto comune di Lenin e Trotzkij, dovunque. Perfino a Suchum. La prima volta che entrò nella sala da pranzo del “Sanatorij” dov’era in cura, Lev Davidovic si trovò di fronte il suo ritratto gigantesco, accanto a quello di Vladimir Ilic listato a lutto. Pensò di tornare di notte per togliere il suo volto dalla parete, evitando strumentalizzazioni, ma si fermò per paura che sembrasse un affronto a Lenin, una fuga dall’ultimo luogo in cui stavano ancora vicini: un muro nel Caucaso.
Come il direttore di un’orchestra dolente, il Cremlino indirizzava il lutto nazionale verso il culto solitario di Lenin: poi al momento opportuno si sarebbe inserito Stalin, eroicizzando a posteriori la sua storia senza gloria di rivoluzionario nell’Ottobre. Piter, culla della rivoluzione, diventa Leningrado, a Mosca il Monte dei Passeri da cui Voland nel Maestro e Margherita si lancia in volo nell’abisso col suo seguito stregonesco, lascia il posto alle “Colline Lenin”. Gli operai comunisti di Berlino convocano una raffica di comizi per ricordare Lenin, in Francia le fabbriche sospendono il lavoro nel giorno dei funerali, a Pietroburgo l’operaia Nikiforova spedisce una lettera a Vladimir Ilic: «Padre amato, hai lasciato i tuoi figli per sempre, giunge l’ora in cui da tutti i Paesi del mondo si verrà a deporre corone sulla tua tomba, bagnata dalle lacrime dei tuoi figli che ti saranno eternamente fedeli». Ovunque, a Kiev, a Voronez, nel bacino del Donez e nelle città del Caucaso gli operai senza tessera chiedono l’iscrizione al partito comunista, fabbriche intere entrano nell’organizzazione. Si iscrivono 99 lavoratori della fonderia “Moskust”, li seguono gli operai degli stabilimenti “Motomazina”, la cellula comunista dell’officina “Krasnoyarsk-Koevnic” annuncia che tra le infinite richieste, selezionerà «i più temprati e in forze». È la “leva di Lenin” che porterà al partito 240 mila nuovi iscritti, filtrati dall’apparato staliniano che investe con metodo su se stesso mentre controlla gli spazi d’ambizione altrui.
Trasferito nel linguaggio popolare, il culto politico di Lenin si autonomizza liberandosi di ogni obbligo con la realtà, e trascolora nella leggenda attraverso il mito nutrito dal rito, passando dalla storia al folclore, inseguendo le visioni tradizionali delle fiabe russe, o almeno i disegni dei “lubok”, le stampe popolari. L’elemento irreale è il più materiale: il corpo, ricostruito per esprimere un simulacro di vita, con la scienza che lo ha portato fin qui e per forza di cose si è fermata, alle soglie della “Voskresene”, la resurrezione. Sembra di sentire la domanda che nei Fratelli Karamazov Dostoevskij fa rivolgere ad Aljòscia («È vero che risusciteremo dai morti, e tornati in vita ci vedremo di nuovo tutti?»), e la certezza della risposta: «Risusciteremo sicuramente, e ci vedremo e ci racconteremo l’un l’altro tutto ciò che è stato».
Sotto il livello della metafisica la spoglia di Lenin è comunque un messaggio politico, ma è anche un modello culturale che il potere non controlla, e il popolo interpreta cercando vie di fuga dalla realtà, per trovare un esito simbolico alla vicenda che non riesce a concludersi, con quel corpo pronto per non si sa che cosa. Ed ecco che nei racconti Vladimir Ilic è morto già da tre mesi, anzi è stato ucciso da Trotzkij, ma Stalin lo ha salvato con le erbe di un guaritore georgiano, no, ha stretto un patto coi medici per inscenare una finta morte e in realtà appare e scompare, visita alla Kolyma Fanja Kaplan, la sua attentatrice che non è stata giustiziata, e in ogni caso di notte esce dal mausoleo e ispeziona le fattorie, all’alba vigila sull’apertura delle fabbriche. «Ilic vede tutto/ le stelle del crepuscolo polare/ il treno che corre/ i tronchi dei cedri nella tajga», assicura una poesia che si impara a scuola. Ed Evghenij Evtushenko conferma: «Tutti i morti riposano tranquilli/ ma Lenin non dorme mai./ Vede, tra gli alti e i bassi dell’epoca/ tra le tempeste e i temporali/ tra i vostri gemiti e i sospiri».
In realtà un secondo funerale è in corso, una sepoltura immateriale impietosa come una diagnosi che soverchia anche il mito, rivelando lo smarrimento di fronte al male, quando tutto il potere si ribalta nell’affanno dell’impotenza. È il racconto a brani che moglie, sorella, medici e guardie di Lenin fanno dell’insorgere della malattia, squarciando il velo del momento in cui Nadezhda si accorge che la calligrafia di Ilic diventa sempre più minuta e incomprensibile, mentre non riesce a contare 12 più 13 e un mattino in bagno guarda lo spazzolino come un oggetto sconosciuto e quando gli dicono che serve per lavare i denti se lo infila in bocca dalla parte del manico; o la conferma segreta del male, con le prime vertigini e lo svenimento di quella notte a Gorkij, tenuto segreto dal comandante Pakaln che avvertì solo la sorella Marija; o ancora la paura della demenza nei giorni in cui Ilic sembrava terrorizzato, strisciava sul divano, indicava eccitato la porta gridando, non reggeva lo sguardo su se stesso, riflesso nello specchio della camera. Fino a quell’ultima ora quando Nadezhda si siede sul letto di Ilic mentre la convulsione finale scuote tutto il corpo. «Io gli tenevo la mano calda, il sangue macchiava il fazzoletto, poi la testa si rovesciò e vidi il sigillo della morte posarsi sul suo volto che era diventato trasparente».
La vox populi, impossibile da frenare, sussurrava il resto: soprattutto la convinzione che Lenin fosse morto a causa della sifilide. In proposito, due riscontri sono fondamentali, e si contraddicono tra di loro. Il primo testimonia che i referti dei 20 medici – professori russi e specialisti occidentali – che si sono alternati nella cura del paziente non parlano mai di sifilide, nemmeno per ipotesi, mentre ne parla in abbondanza il popolo nelle città e nei villaggi, in una diagnosi collettiva che non ha dubbi. Il secondo riscontro rivela che l’unica cura a cui fu sottoposto Lenin è esattamente la terapia che in quell’epoca veniva prescritta per combattere la lue, visto che i sintomi portavano in quella direzione: irascibilità, mal di testa, dispersione del pensiero, scontrosità, irrequietezza: fino all’esito fatale, quando la neurosifilide vascolare provoca un danno al sistema centrale, con difficoltà di coordinamento e di parola, accompagnata dalla paralisi degli arti. Il farmaco che fu somministrato fin dal primo giorno della malattia, il 25 maggio 1922, è appunto il Salvarsan, un rimedio a base di arsenico, che veniva usato esclusivamente nei casi di sifilide. E la cura prevedeva che a Lenin venisse inoculato un preparato a base di mercurio, iodio, bismuto, arsenico e chinino, perché si puntava a curare la sifilide inoculando la malaria, provocando uno stato febbrile nel malato con un’infezione “amica”, e quindi si interveniva con il chinino. Ma nessun medico ha firmato una diagnosi esplicita che certifichi uno schema di cura antiluetico. Resta il fatto che già il secondo giorno al capezzale del paziente arriva uno specialista in neurosifilide, il professor Kozhevnikov. Ma non c’è nessuna conferma ufficiale di questa infezione per Ilic: anzi, gli esami di laboratorio, la reazione di Wassermann e l’analisi del liquido cerebrospinale ufficialmente danno risultati negativi. Questi referti sono stati pilotati dal Cremlino? Certo il controllo politico sulla malattia di Lenin si è sovrapposto costantemente al controllo medico, attraverso il Commissario del Popolo alla Salute Pubblica Semashko. Ma è difficile convincere venti specialisti a ingannare la loro scienza rendendola interamente ancella della politica. E poi perché? Cosa c’era di così sensibile in quel racconto sanitario, al punto da turbare una nazione?
Un pudore bolscevico postumo potrebbe aver consigliato di evitare l’argomento, ogni pettegolezzo e qualsiasi curiosità sulla vita sessuale di Lenin, circondandolo con un bozzolo di protezione da qualunque debolezza, vizio, contaminazione, come si pretende dai Santi quando si riaprono le loro tombe: incorrotti perché incorruttibili. Uno scrupolo più piccolo-borghese che rivoluzionario, soprattutto in un Paese in cui non c’era un pregiudizio morale sulla malattia: che risalendo da Napoli, Parigi e poi passando per Vilnius e Smolensk infettava in Russia secondo le proiezioni statistiche 8 milioni di persone, e a Mosca in quegli anni pre-antibiotici veniva riscontrata quasi nel 6 per cento di tutte le autopsie a defunti di qualsiasi età, neonati compresi. Resta il fatto che per due anni una mano medica cura ciò che l’altra mano non diagnostica, per convinzione scientifica o per suggerimento sovrano. Una spedizione ad Astrachan, sul Volga, per cercare nei famigliari e negli avi di Lenin tracce di sifilide non trovò segni di danno luetico pur analizzando 11 profili di genitori, nipoti, fratelli, sorelle, zii e cugini fino al nonno Nikolaj Vasilevic, morto a 67 anni. E nei 15 anni in cui Nadezhda sopravvisse a Vladimir Ilic, ricoverata più volte in ospedali russi e stranieri, nessuno parlò mai per lei di sifilide: salvo Stalin, ma come insulto, non come riscontro. Tutto questo non fermò la convinzione popolare che la sifilide cerebrale avesse ucciso Lenin con un’infezione contratta prima della rivoluzione, e il pettegolezzo che pretendeva di sapere anche l’origine del contatto, con una prostituta parigina.
L’ultimo agente straniero contro la rivoluzione, nel racconto della Russia era dunque un batterio trasparente, riconoscibile solo al microscopio elettronico ma capace di sconvolgere l’assetto di potere sovietico, appena sei anni dopo l’Ottobre. Solo l’inspiegabile, esclusivamente l’invisibile poteva abbattere Lenin, quasi in un sortilegio. Il microbo del fato o del dubbio, mescolato col veleno, ingrediente risolutivo della tradizione russa, a cui provò a resistere soltanto Grigorij Rasputin, il monaco santo e demoniaco che teneva in pugno la famiglia imperiale di Russia. Stalin potrebbe aver fatto avvelenare Lenin dai medici a piccole dosi o con un’unica somministrazione letale? Manca qualsiasi riscontro, e il sospetto per farsi strada critica l’autopsia, che non ha eseguito l’analisi chimica dello stomaco, e raccoglie le voci di un’ultima zuppa di funghi preparata per Ilic, con l’aggiunta di scaglie del “fungo ragno”, il cortinarius speciosissimus col cappello color ruggine, mortalmente velenoso anche dopo tre giorni. Trotzkij, nei suoi scritti tardivi, non accredita un piano di avvelenamento, ma avanza un dubbio sulla “Farmacia dei veleni” della Ghepeù, ricordando l’inganno di Stalin sulla data del funerale per impedirgli di essere presente: «Sotto tutti gli aspetti, era più sicuro tenermi lontano finché il corpo fosse stato imbalsamato e i visceri cremati». Nel fuoco staliniano brucia così l’ultimo sospetto del Cremlino, col mistero nascosto – come al tempo degli antichi aruspici – nelle viscere di Ilic.
All’inizio di maggio, quattro mesi dopo la morte di Lenin, Nadezhda Krupskaja tagliò il cordino di sicurezza, ruppe i sigilli, aprì la busta che conteneva il “Testamento” di Vladimir Ilic e spedì il testo a Kamenev, chiedendo formalmente che quelle carte venissero lette al XIII Congresso del partito, convocato per il 23 di quello stesso mese. Il messaggio non poteva essere ignorato. Era «desiderio preciso» di Lenin, scriveva la vedova, che il documento intitolato non a caso Lettera al Congresso venisse portato a conoscenza della prima assemblea generale del partito dopo la sua morte. La Krupskaja, dunque, agiva come un’esecutrice testamentaria, che obbligava il vertice comunista a svelare pubblicamente le pesanti riserve di Lenin su Stalin, e il suo invito esplicito a sostituirlo come GenSek. Una bomba sul cammino del partito in un momento delicato: stava spuntando un’opposizione, 46 dirigenti avevano firmato un documento che criticava il vertice, dove l’apparato ormai soffocava il partito. Trotzkij si mette alla testa di questa ala critica, chiede più democrazia, libertà di opinione e di corrente, ripercorre la storia dell’Ottobre ricordando che Zinov’ev e Kamenev erano contrari all’insurrezione, e soprattutto non cita mai Stalin. È guerra aperta, il GenSek lo accusa di considerarsi «un superuomo al di sopra del Comitato Centrale» con una linea «anarco-menscevica», e fa approvare il divieto di organizzare frazioni. Il messaggio del Cremlino è chiaro, Trotzkij è il nemico da abbattere. Ma nel cuore della battaglia, la rivelazione del Testamento può incendiare il partito.
Stalin aveva sperato che la vampata emotiva del funerale di Lenin avesse soverchiato la memoria del Testamento, derubricandolo a documento di un’altra epoca. Ma la Krupskaja non aveva chiesto un favore, bensì l’adempimento di un dovere, e Kamenev doveva per forza informare il partito, anche perché lei insisteva. «Vecchia troia», la maledisse Stalin, seduto da solo sul bordo del Praesidium mentre si decideva la sua sorte. Era nelle mani del partito, il suo futuro diventava incerto, poteva perdere tutto con la vendetta di Lenin. Il 22 maggio si riunì il “Consiglio degli Anziani”, per decidere come trattare la materia incandescente delle ultime volontà di Vladimir Ilic. Kamenev dalla presidenza dovette leggere il Testamento con le sue accuse, ma fu Zinov’ev che salvò Stalin: «Compagni, ogni parola di Ilic è legge per tutti noi. Abbiamo giurato di ubbidire a tutto ciò che Lenin ci raccomandò di fare. Voi potete essere sicuri che manterremo la nostra promessa. Ma siamo felici di potervi dire che su un punto i timori di Lenin non si sono dimostrati fondati. È il punto che riguarda il nostro GenSek. Voi tutti qui siete testimoni del nostro lavoro comune negli ultimi mesi, e come me siete lieti di verificare che i timori di Ilic non si sono realizzati». Kamenev si affrettò a tradurre il tradimento leninista di Zinov’ev: «Non daremo attuazione alla direttiva di esonero per Stalin». Tutti guardavano Trotzkij, che non si mosse, presente ma assente. Si votò per decidere se rivelare il Testamento al congresso, oppure leggerlo solo ai presidenti delle delegazioni regionali: vinse questa seconda scelta, riducendo ancora di più la portata della denuncia di Lenin, che verrà resa nota soltanto 33 anni più tardi. Ma quel giorno, quando tutto era ancora in gioco, il partito che aveva appena scoperto il Testamento decise di seppellirlo nel silenzio, dove resterà fino a quando Nikita Krusciov lo renderà pubblico al XX Congresso, tre anni dopo la morte di Stalin. Trenta voti a dieci, con l’opposizione testarda, in piedi, di una donna: Nadezhda Krupskaja. Ancora una volta Stalin se la trovava davanti, custode di una memoria antagonista di Lenin, impotente ma irriducibile nella sua opposizione disarmata. «Prima o poi – commenterà il GenSek – nomineremo un’altra vedova».
Tutto era consumato. Sfiorato il burrone, Stalin si dedicò a far precipitare nel buio i suoi compagni di partito, compresi quelli che lo avevano salvato dall’attacco postumo di Lenin. Naturalmente si comincia da Trotzki. Zinov’ev senza nominarlo chiede a Lev Davidovic di ammettere i suoi errori: «La cosa più degna che l’opposizione può fare è dire ho sbagliato, il partito aveva ragione». È l’invito all’autocritica, che Trotzkij respinge: «Compagni, è molto facile oggi qui dirvi che le nostre critiche erano un errore. Ma non posso dirlo perché non lo penso. Però nessuno di noi vuole e può aver ragione contro il proprio partito. Dunque, giuste o sbagliate che siano le sue posizioni, questo è il mio partito e io porto fino in fondo le conseguenze delle sue decisioni».
Ma nessuno immaginava fin dove si doveva precipitare per arrivare «fino in fondo». È una valanga. Trotzkij entra nel nuovo Comitato centrale ma per il rotto della cuffia, cinquantunesimo eletto su cinquantadue. Il 2 gennaio 1925 perde la presidenza del Consiglio della guerra e la carica di Commissario per l’Esercito, finisce a dirigere l’ufficio dell’elettrotecnica, dell’industria e delle concessioni, tre incarichi di seconda fila. Nell’ottobre 1927 il suo ultimo discorso al Comitato Centrale è interrotto dai fischi. Nel decimo anniversario della rivoluzione viene espulso dal CC, deve lasciare il Cremlino. E un mattino sette uomini armati scendono da due auto della Ghepeù in via Granovskaja, bussano alla porta di Trotzkij e gli notificano l’arresto, trascinandolo a forza perché si rifiuta di seguirli. Lo mandano al confino nel Turkestan, ad Alma Ata, poi con l’accusa di «attività controrivoluzionaria» arriva l’espulsione: destinazione Istanbul. Sul molo di Odessa, l’ultima notte, nel buio lui riuscì a fatica a leggere il nome del cargo che lo portava via per sempre dall’Urss: si chiamava Ilic.