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 2024  settembre 03 Martedì calendario

Così la crisi tedesca ha spinto gli estremisti

Sono ore di inquietanti prime volte per la Germania. Domenica, per la prima volta dalla fine della Guerra, un partito dell’estrema destra, l’Afd, ha vinto delle elezioni regionali. E ieri Volkswagen, “l’auto del popolo” fondata in epoca nazista e poi diventata simbolo industriale della Germania democratica, ha detto che la crisi potrebbe costringerla per la prima volta – a chiudere uno stabilimento sul territorio nazionale.Una coincidenza simbolica, o forse qualcosa in più, dicono molti osservatori. Se una quota crescente dell’elettorato vota agli estremi infatti, a destra ma non solo, è anche perché vive sulle proprie tasche gli effetti della crisi del modello di crescita tedesco. Lo stallo di una locomotiva manifatturiera che ha corso a lungo, trainando il resto d’Europa, ma che la guerra in Ucraina ha lasciato senza il gas a basso costo di Putin e la frenata della Cina senza il cliente dalle uova d’oro. Problemi strutturali che covavano da tempo, come la scarsità di investimenti e la debolezza dei consumi, sono venuti al pettine, congelando il Paese in una stagnazione che dura ormai da cinque anni. E da cui i tedeschi non vedono via d’uscita.«Il legame c’è – dice l’economista Antonio Villafranca, vicepresidente per la ricerca dell’Ispi – e la vera questione per i partiti “tradizionali” non è tanto fare i conti con l’Afd, nei cui confronti c’è un cordone di sicurezza anche a livello nazionale, quanto con i gravi errori nelle politiche sociali, economiche ed energetiche che ne spiegano l’ascesa: altrimenti continuerà a rafforzarsi». Bisogna tornare indietro, all’epoca Merkel tanto celebrata per crescita e stabilità sociale, per vedere le prime crepe. Nel 2015, un anno dopo l’invasione della Crimea da parte di Putin, Berlino decide di raddoppiare il gasdotto North Stream, legandosi ancora di più al metano a basso costo della Russia. Lo stesso anno il Dieselgate oscura il mito di Volkswagen. Ma Villafranca cita anche la mai discussa «religione del pareggio di bilancio» e la sua influenza sugli investimenti pubblici: «Infimi per un Paese come la Germania, che sul digitale e le infrastrutture è fortemente indietro, come si vede nella stagnazione della produttività».La crescita che si vedeva prima della pandemia, era dovuta in parte a tassi di immigrazione positivi, giustamente incoraggiati. E a un modello in cui le grandi aziende esportatrici potevano contare su lavoro flessibile e salari moderati. «In Germania ci sono sperequazioni sociali enormi – dice l’economista – molti pensionati vivono sulla soglia di povertà e nell’Est un minore su cinque è sotto la soglia di povertà: non stupisceche molti elettori ora percepiscano l’immigrazione come competizione e, anche se non sono neonazisti, votino per forze estremiste».Non tutti in realtà sono convinti che la marea nera si possa spiegare con fattori economici. Pur riconoscendo che il modello è in crisi, infatti, Daniel Gros dice di ritenere «tenue» il legame: «Già prima della stagnazione l’Afd era una forza molto presente sia nell’Est che nell’Ovest spiega l’economista, docente alla Bocconi e direttore del think tank Ceps. «Nell’Est del resto gli investimenti pubblici e in servizi sociali sono stati superiori, e l’Afd non spicca nelle regioni o nelle città che vanno peggio». La Sassonia per esempio, dove domenica la forza di destra è arrivata un punto sotto la Cdu, sta emergendo come il polo tedesco ed europeo per la produzione di chip.Nel complesso la Germania restaun Paese che sfiora la piena occupazione e anche se i salari negli ultimi anni sono cresciuti poco, restano molto più alti della media europea. Daniel Gros cita altre possibili spiegazioni: divergenze di sviluppo interne alle regioni dell’Est e una immigrazione più recente rispetto all’Ovest «che i cittadini potrebbero avuto meno tempo per elaborare». Ma riconosce che non sono sufficienti a spiegare il risultato di domenica. E che il sistema economico non sta riuscendo a spostarsi da settori “a tecnologia media” come l’automobile, dove la concorrenza della Cina è feroce, verso l’hi-tech.Dopo un fugace sussulto di primavera, le imprese tedesche sono ripiombate in una crisi nera: ad agosto l’indice Pmi, che misura la loro “fiducia”, è sceso ancora a 42,4, ben sotto la soglia 50 che separa espansione e contrazione. Dopo una flessione dello 0,1% nel secondo trimestre, un altro periodo di Pil negativo e una nuova recessione sono possibili. Ma è da prima della pandemia, cinque anni, che l’economia è ferma (+0,3 decimi), mentre Italia cresceva del 4,7% e la Francia del 3,7.«Non sarà una correlazione perfetta, ma il legame è stretto», dice Marco Fortis, economista che dirige la Fondazione Edison. «La stagnazione ha acuito il disagio sociale, anche perché nel frattempo i tedeschi sono stati sottoposti a un’inflazione che temono molto e pure i consumi si sono piantati. Se poi depuriamo il Pil dalla crescita demografica capiamo che il reddito pro capite non cresce, un contesto che alimenta le spinte populiste che indicano nell’immigrato il nemico».Le ragioni della crisi tedesca, secondo Fortis, vanno cercate all’incrocio tra questo «sbandamento del ceto medio» e «l’atteggiamento aristocratico della grande industria, specie quella automobilistica, che ha assecondato l’ harakiri europeo del motore endotermico pensando di poter ancora dominare il mondo, mentre la Cina stava diventando un concorrente formidabile». A febbraio del 2022, dopo l’invasione dell’Ucraina, Scholz aveva pronunciato il discorso della Zeitenwende, della “svolta epocale” di fronte a cui si trovavano la Germania e il suo modello. In qualche misura il traballante esecutivo ha cercato di far seguito. Insieme alle regioni ha stanziato miliardi per attirare nuovi investimenti industriali, soprattutto nei chip. E già prima di queste elezioni lo schema di spesa per il 2025, approvato a luglio, puntava su sicurezza, coesione sociale e crescita. Tra le cose che non cambiano però c’è il vincolo al pareggio di bilancio, sancito dalla Costituzione, caro alla maggioranza dei cittadini e ora garantito dal ministro delle Finanze Lindner, liberale e ultra rigorista.«È mancata la capacità di riconoscere che non tutto il debito pubblico è malsano, se indirizzato a investimenti», dice Fortis. «Del resto il capitolo di spesa più consistente, la difesa, sollecitato dall’industria pesante e dell’acciaio, pone grossi interrogativi geopolitici». La sostanza è che difficilmente la Germania ne uscirà in tempi brevi. E a dispetto di chi anche nel governo – esulta per un Pil che corre “più di quello tedesco”, la crisi di quella che fu la locomotiva è una cattiva notizia per tutti i vicini, a cominciare dall’Italia. «La crisi tedesca si incardina in una più ampia crisi dell’Europa – dice Fortis –. Semmai, dovrebbe aiutarci a capire che non tutte le istanze che Berlino porta a Bruxelles sono corrette, per ottenere più spazi di manovra fiscali necessari agli investimenti».