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 2024  settembre 03 Martedì calendario

Il baritono Luciano: «La musica mi ha salvato dai margini della legalità»

«Potevo finire male», dice Davide Luciano, baritono. È nato 37 anni fa alla periferia di Benevento. Casa prefabbricata, famiglia povera, brutti giri a un tiro di schioppo. Si è salvato con la musica. Ti parla di «notti brave ai limiti della legalità», e dell’eleganza del bel canto e di Cesare Siepi. Sul braccio ha tatuato un guerriero del teatro kabuki. A Salisburgo è stato protagonista dell’opera simbolo a casa di Mozart: Don Giovanni, regia di Castellucci e direzione di Currentzis.
Ci parli della sua famiglia.
«I miei mi hanno avuto che erano molto giovani, mamma 17 anni, papà 23 e si arrabattava in mille lavori, cantavano ai matrimoni, nei ristoranti, alle sagre. Cosa che feci con lui da ragazzo. A 8 anni mi fece studiare piano, a 14 cominciai a dimenarmi tra chitarra, basso e batteria dal rock al blues fino alla canzone napoletana. Dell’opera non sapevo nulla. Dopo la prima lezione del mio mentore, Gioacchino Zarrelli, che mi disse che un cantante deve fare una vita monastica, sparii. Ma a 20 anni fui folgorato dal Ratto dal Serraglio al San Carlo. Ho vissuto tante coincidenze incredibili».
Ce ne dica una.
«Sono nato con una malformazione dello stomaco. Fui salvato da un’intuizione di mia madre che mi portò in ospedale a Napoli, i medici le dissero che al 50 per cento non ce l’avrei fatta. Lei andò a pregare nel vicino monastero di Santa Chiara, dove a 24 anni ho cantato a un concorso. E l’ho vinto. Quel giorno per la prima volta mia madre mi raccontò della sua preghiera».
Che adolescenza ha avuto?
«Inquieta, dopo che i miei si separarono (prima di riunirsi). Fu il maestro Zarrelli a salvarmi con la musica, e poi la disciplina del rugby che ho praticato a livelli alti. A scuola venivo preso di mira, non dagli allievi ma dai professori: pensavano che non avrei mai combinato nulla nella vita. Venivo etichettato. Io invece non do mai giudizi. Anche Don Giovanni, che qui è astratto e allegorico... Non mi è simpatico ma cerco di capire la sua umanità».
Teodor Currentzis con i suoi riti e manie è un personaggio controverso...
«Devi arrivare a compromessi con lui. Nel 2021 l’ho sofferto e subito di più. Era teso. Era il mio debutto qui. E Castellucci mi chiese un nudo integrale, in tutta la scena finale. Mi parlò dei corpi mummificati dell’eruzione di Pompei. La lava, le fiamme. È già l’Inferno di Don Giovanni. Ma tutte le recensioni partirono da lì, suscitò scalpore, così ora mi sono imposto e niente nudo».
In Italia la si ascolta poco.
«Non ho un bel rapporto, i teatri non aiutano i giovani, aspettano che hai successo all’estero. Nel 2025 canto a Vienna, Berlino, New York. Alla Scala mi chiamarono solo per una sostituzione dell’ultimo momento. Ma l’anno prossimo ho due debutti importanti in Macbeth».
La lirica è tutta la sua vita?
«No, non sono nemmeno un melomane. Finita la recita preferisco parlare d’altro, sport, famiglia. E di cucina, la mia passione iniziata quando da adolescente ci dovevamo arrangiare, mentre mio padre faceva di mattina l’imbianchino, il barman di notte e nel pomeriggio guidava i pullmini che trasportano il sangue. Anch’io ho dovuto fare tanti lavori, anche il macchinista nei teatri, così le prime persone che saluto sono loro, che non hanno il narcisismo di certi miei colleghi. So cos’è la disciplina, conosco la gratitudine e non sopporto i colleghi che fanno i capricci. La mia è una storia di riscatto sociale».