Corriere della Sera, 3 settembre 2024
Intervista a Lav Diaz, regista
Venezia - Vinse il Leone d’oro con The Woman Who Left, presidente Sam Mendes, un film filippino di 4 ore. In gara, (nel 2016), c’era La La Land. Lav Diaz dice che «gli altri premiati non mi rivolgevano la parola né mi guardavano, erano increduli che avessi potuto vincere io, con un filmetto da 100 mila dollari mentre i loro erano costati milioni».
Torna con Phantosmia, che ne dura altre 4. I suoi spettatori sono seguaci di una setta. Lui si carica sulle spalle il peso della verità, mentre il tempo della realtà e dei suoi racconti si saldano e coincidono. Il maestro del cinema lento, 65 anni, contro l’oppressione sociale, spirito libero e radicale, va ai festival e vince.
Che cinema è il suo?
«Meditazioni su gente perduta, contro ogni feudalesimo, dittatore, monopolio. Qui parto da disturbi olfattivi. Phantosmia è un odore fantasma causato da un trauma, una frattura psicologica. C’è un senso proustiano».
Parliamo di lei.
«Sono cresciuto in uno sperduto villaggio rurale, dove impera la legge della sopravvivenza. I miei erano insegnanti. Papà pacifista, mamma cattolica. Da giovani erano nomadi, erano docenti volontari tra le tribù più remote nella foresta, dove prendeva vita una bella comunità. L’unica distrazione era la radio che mandava musica americana. Io suonavo rock che divenne popolare nel 1972, quando si proclamò la legge marziale, che divenne uno spartiacque. Il caos. C’erano scontri tra fondamentalisti cristiani, secessionisti musulmani, ribelli comunisti ed esercito regolare».
Ma il cinema?
«Ero appassionato fin da piccolo. Per lavorare negli Anni 80 scrissi film d’azione. Non avevo una visione politica nitida. Assaporai la libertà con film a basso costo grazie alle prime tecnologie digitali. Raccontavo la corruzione con inquadrature lunghe. In un mio film un dissanguamento dura 20 minuti. Volevo restituire le sofferenze patite nei secoli dai filippini. L’arte specchio della società. La rivoluzione si combatte anche nell’immaginazione. Dopo la dittatura di Marcos non è cambiato nulla. Siamo testimoni di un caos, un misto di Shakespeare, Brecht, dadaismo, psicosi e kung fu».
I suoi attori si sottopongono a progetti fluviali...
«In genere è buona la prima. Parlo poco, è meglio per instaurare fiducia. Giro in bianco e nero, le star filippine si fanno ricoprire di trucco per apparire più bianche. Io invece dico: mi spiace, apparirete meno belli».