Corriere della Sera, 3 settembre 2024
Il seguito cruento della guerra civile
Tra pochi mesi, a fine aprile, cadranno gli ottant’anni dalla definitiva fine del secondo grande conflitto del Novecento e del fascismo. Nonché dal tracollo della Repubblica sociale italiana. Forse anche in vista di questa ricorrenza, Amedeo Osti Guerrazzi ha scritto un grande libro, L’ultima guerra del fascismo. Storia della Repubblica sociale italiana, che esce da Carocci il 6 settembre. Oltre a riepilogare i fatti con precisione quasi maniacale, fissando l’attenzione su quella che definisce «la guerra ai civili» (in particolare dopo la liberazione di Roma nel giugno del 1944), l’autore esamina le varie fasi dell’ultima esperienza mussoliniana.
La tesi che la Rsi dovesse fungere da «scudo» degli italiani contro l’immaginabile vendetta tedesca dopo il «tradimento» dell’8 settembre, a un’attenta analisi delle fonti d’archivio, non sembra «verosimile». Secondo Osti Guerrazzi, soprattutto dopo l’estate del 1944, i fascisti cercarono «una nuova identità nel nazifascismo, un’ideologia che mischiava elementi dei due partiti e che trovava il suo fulcro in una concezione rigidamente gerarchica e razziale dei popoli europei». In quell’ultima fase della Repubblica sociale una parte dei giovani che «andarono a Salò» si sentivano più «vicini» ai nazisti tedeschi che ai loro connazionali. In un certo senso, sostiene Osti Guerrazzi, in quei mesi tra il 1944 e il 1945 il fascismo dichiarò guerra «all’intera popolazione italiana».
L’autore rende omaggio a chi prima di lui si è occupato dell’argomento – Frederick W. Deakin, Giorgio Bocca, Luigi Ganapini, Aurelio Lepre, Hans Woller. Anche Renzo De Felice, «nonostante sia spesso utilizzato, a torto, come l’alfiere della storiografia di destra», il quale, riconosce Osti Guerrazzi, diede invece «valutazioni estremamente negative sull’esperienza storica della Rsi». Dopodiché Osti Guerrazzi si interroga su un grande mistero: come mai «in Italia, a differenza di tutti gli altri Paesi europei, il fascismo e i suoi crimini non sono assolutamente stati metabolizzati e superati né dal punto di vista storiografico né dal punto di vista politico e sociale?». Sacrosanta osservazione: praticamente non passa giorno in cui non si parli di fascismo e antifascismo in un modo o nell’altro ma della «metabolizzazione» invocata da Osti Guerrazzi non c’è traccia. Anzi. In Stati come la Francia o la Norvegia, fa osservare lo storico «sarebbe impossibile vendere pubblicamente nelle edicole calendari di Philippe Pétain, di Vidkun Quisling, oppure rifarsi a quelle esperienze come fattori “anche” o “in parte” positivi durante un comizio elettorale». In Italia invece…
I motivi di questa nostra «peculiarità» sono a ogni evidenza molteplici. Tradizionalmente li si riconduce alla limitata epurazione dell’amministrazione statale, all’amnistia del 1946 di Palmiro Togliatti «che ha impedito o bloccato lo svolgimento dei processi», all’ideologia delle classi dirigenti che non è mutata granché dopo il 1945 anche in ragione della guerra fredda e a mille altri fattori. Tra i quali le vendette politiche che si protrassero per oltre un triennio dopo la fine della guerra, a cui Giampaolo Pansa ha dedicato le proprie attenzioni nell’ultima parte della sua vita giornalistica. L’autore non elude questo tema, ma, sia pure in modo conciso, fissa l’attenzione su alcuni casi che si verificarono ben prima dell’amnistia di Togliatti. Qualche tempo prima della fine della guerra. O immediatamente dopo. E che contengono qualcosa di non del tutto chiarito.
Giustamente Osti Guerrazzi non si sofferma sulla carneficina nel carcere di Schio. Una vicenda troppo nota e fin troppo dibattuta. Per completezza d’informazione ricordiamo sommariamente di che cosa si trattò rifacendoci al libro di Silvano Villani L’eccidio di Schio. Luglio 1945: una strage inutile (Mursia). L’uccisione di ex fascisti (non tutti, però, erano tali) a Schio, nel Vicentino, fu consumata nella notte tra il 6 e il 7 luglio del 1945, due mesi dopo la fine della guerra. Ex combattenti comunisti appartenenti alla brigata garibaldina Ateo Garemi, al comando di Igino Piva (Romero) e Valentino Bortoloso (Teppa), coadiuvati a loro volta da agenti della polizia ausiliaria partigiana, uccisero 54 persone (di cui 14 donne, una sedicenne) e ne ferirono 17. I detenuti erano 99 di cui 8 comuni che furono immediatamente messi in libertà. Degli altri 91 (di cui facevano parte i 71 tra uccisi e feriti dagli ex partigiani) si dovevano ancora verificare le responsabilità. Solo la metà degli uccisi e dei feriti, si accerterà successivamente, era stata realmente compromessa con il regime. Gli assalitori sostennero che i reclusi furono trucidati come rappresaglia per l’uccisione, il 14 aprile dello stesso anno, del partigiano Giacomo Bogotto e per la strage di Pedescala (82 civili ammazzati dai tedeschi in ritirata). A scatenare il desiderio di ritorsione sarebbe stato il ritorno a Schio dell’antifascista William Pierdicchi sopravvissuto a Mauthausen. Il capitano Chambers responsabile dell’amministrazione alleata aveva annunciato che, se entro cinque giorni non fossero state mosse accuse circostanziate, tutti i detenuti sarebbero stati rimessi in libertà. A questo punto fu decisa l’azione: non si poteva consentire che in fretta e furia dei fascisti si mettessero in salvo. Il sindaco comunista Domenico Baron non risultò compromesso con il sanguinoso episodio. La Camera del lavoro e il Pci condannarono l’eccidio perché consumato a guerra finita. «L’Unità», organo del Partito comunista italiano, parlò di «provocatori trotzkisti».
Ma il segretario del Pci Palmiro Togliatti ministro di Giustizia, ricevette – secondo la testimonianza del suo segretario Massimo Caprara – tre degli autori dell’eccidio. Il Pci si occupò poi di farli espatriare. Togliatti ne incontrerà due (casualmente) a Praga. Il 22 giugno 1946, undici mesi dopo l’eccidio, Togliatti varerà l’amnistia. Prima dell’amnistia però, il governatore militare del Veneto Dunlop istruirà il primo processo per l’eccidio commissionando le indagini a John Valentino e Therton Snyder. A due mesi dai fatti, verranno individuati quindici autori della strage di detenuti. Di loro otto si erano nel frattempo rifugiati in Jugoslavia, sette, invece, furono arrestati: due saranno assolti, cinque condannati di cui tre a morte (tra i quali Bortoloso). Le pene verranno poi commutate in detenzioni carcerarie che saranno scontate in dieci, massimo dodici anni.
Un secondo processo si terrà a Milano nel novembre 1952. Sentenza: otto ergastoli. Dei condannati uno solo sarà presente al dibattimento, Ruggero Maltauro, estradato dalla Jugoslavia dopo la rottura tra Belgrado e Mosca. Il terzo processo si svolgerà a Vicenza nel 1956 e si incentrerà sull’individuazione dei mandanti. Principali imputati Pietro Bolognesi (assolto per insufficienza di prove) e il comandante partigiano Gastone Sterchele (assolto con formula piena). Nel 2016 si riapriranno le polemiche (da parte del sindaco Valter Orsi) per il conferimento caldeggiato dall’Anpi di una medaglia a Valentino Bortoloso. Onorificenza poi ritirata. Una parziale «pacificazione» verrà l’anno successivo, il 3 febbraio del 2017, allorché Anna Vescovi – autrice di La verità è una linea retta: il padre ritrovato (Outsphera Edizioni) – figlia di un commissario prefettizio ucciso quella notte a Schio scriverà una lettera di riconciliazione con Valentino Bortoloso. Ne seguirà una cerimonia al cospetto del vescovo di Vicenza Beniamino Pizziol.
Il secondo caso, di cui invece Osti Guerrazzi si occupa, è quello del colonnello Felice Fiorentini comandante della Sicherheits Abteilung, la polizia politica di Broni-Voghera resasi responsabile di rastrellamenti, incendi, saccheggi, arresti, torture e fucilazioni tra l’hotel Savoia e il castello di Cigognola. Quando fu catturato, racconta Osti Guerrazzi, prima di essere passato per le armi (il 3 maggio del 1945) il colonnello fu messo in una struttura di legno e fatto girare per i paesi con un cartello che lo identificava come «la belva Fiorentini». La volontà di vendetta, spiega Osti Guerrazzi, «spinse a mostrare ai superstiti dei rastrellamenti e delle devastazioni il loro carnefice, umiliandolo e mettendolo in una gabbia come un animale feroce». Però poi dai partigiani gli fu concesso di essere fucilato al petto e addirittura d’essere lui a comandare il plotone di esecuzione. Si tratta in ogni caso di violenze a carattere ritorsivo consumate a ridosso della liberazione. Atroci ma non rare in momenti come quelli. Anche se sui «non compromessi con il fascismo» massacrati a Schio andrebbe fatta, forse, un po’ più di chiarezza. Con quale criterio furono individuati? La loro uccisione è riconducibile esclusivamente alla confusione prodottasi in quella notte di sangue?
In ragione anche di questi interrogativi vale la pena di soffermarci sull’altro caso proposto da Osti Guerrazzi: l’uccisione del direttore del carcere di Regina Coeli, Donato Carretta, avvenuta a Roma il 18 settembre 1944. Osti Guerrazzi lascia trasparire qualche perplessità. La sanguinosa vicenda è nota e ne ha scritto in modo esauriente Gabriele Ranzato quasi trent’anni fa in Il linciaggio di Carretta. Roma 1944. Violenza politica e ordinaria violenza (il Saggiatore). Carretta si presentò per testimoniare al processo contro il questore di Roma Pietro Caruso, destinato a essere fucilato il 22 settembre. Ma, prima che Carretta potesse salire sul banco dei testimoni, una donna lo indicò come un assassino e la folla che assisteva al processo lo uccise in modo barbaro dopo un inseguimento in varie tappe, una più atroce dell’altra. Luchino Visconti, su commissione degli angloamericani filmò il parapiglia dalla cattura di Carretta nell’aula di giustizia, a chi incitò al linciaggio e chi gli si avventò addosso. Ma come ha ben messo in risalto Walter Veltroni – nel libro La condanna (Rizzoli) – quei fotogrammi misteriosamente scomparvero. Carretta fu ripetutamente colpito mentre tentava di sottrarsi alla folla, un conducente di tram, Angelo Salvatori, tirò fuori la tessera del Pci e rifiutò di decapitarlo con il suo mezzo. Carretta fu poi gettato nel Tevere e ucciso a colpi di remo. Il cadavere venne infine appeso alle sbarre di una finestra del «suo» carcere, Regina Coeli. Delle trentotto ferite e lacerazioni gravissime riscontrate sul suo corpo nel corso dell’autopsia, ha notato Pierangelo Maurizio, in Via Rasella settant’anni di menzogne (Maurizio Edizioni), «trenta risultarono essere state provocate mentre era ancora in vita». Tutte «potenzialmente mortali».
Osti Guerrazzi non si capacita di questa inaudita ferocia dal momento che, dal settembre del 1943 al giugno del 1944 quando la capitale venne liberata dagli angloamericani, Carretta aveva «aiutato la Resistenza romana». «Notoriamente», sottolinea Osti Guerrazzi. Lo stesso Ranzato ha ritenuto di tornare sull’argomento in margine a un altro libro, La liberazione di Roma. Alleati e Resistenza (Laterza) per confermare sulla base di una documentazione ineccepibile – prima tra tutte la testimonianza del tenente Wilhelm Kofler – che Carretta era riuscito addirittura a intervenire sulla lista dei prigionieri destinati al massacro delle Fosse Ardeatine «cancellando alcuni nomi e sostituendone degli altri». E a far evadere dal carcere esponenti antifascisti nell’ora del massimo pericolo.
Man mano che ci si allontana da quegli anni prende consistenza il sospetto che Carretta fu ucciso non per un tragico errore, ma su disposizione di qualcuno che non voleva potesse rendere testimonianza in merito a chi fossero i detenuti a Regina Coeli che aveva protetto (prima e dopo l’attentato di via Rasella). E soprattutto per impedirgli di rivelare chi erano i suoi interlocutori nella Resistenza romana. Resistenza romana alla quale, come precisa Osti Guerrazzi, si sapeva che Carretta aveva dato una mano. Anche perché è chiaro che, quando si sostituisce un nome in una lista di persone da inviare alle Fosse Ardeatine, al posto di quello che viene accantonato ce n’è un altro che viene inserito. Carretta conosceva quelli degli uni e quelli degli altri. In più sapeva i nomi di chi, oltre al tenente tedesco Heinz Tunath, gli aveva commissionato le sostituzioni. Quantomeno quelli di chi gli aveva suggerito di mettere al riparo questo o quel detenuto nelle drammatiche giornate successive all’attentato di via Rasella. La gazzarra che provocò la sua morte potrebbe (sottolineo: potrebbe) essere stata montata ad arte per eliminare un testimone scomodissimo. In ogni caso resta l’impressione che una storia definitiva e completa dell’uccisione di Carretta e di molti altri episodi del genere potrà essere scritta solo tra qualche anno. E forse il mistero che ancor oggi avvolge questi casi è, almeno in piccola parte, all’origine della «peculiarità» italiana di cui si è detto all’inizio.