Corriere della Sera, 3 settembre 2024
L’Oceano sale, fuga dalle isole
Non solo Tuvalu, Kiribati e le Figi rischiano di finire sott’acqua per l’innalzamento degli oceani dovuto alla crisi del clima. Agli antipodi degli Stati insulari del Pacifico ormai pronti al peggio un’altra popolazione indigena ha già l’acqua alla gola e sta dicendo addio alla sua isola. Il governo panamense ha cominciato a trasferire sulla terraferma trecento famiglie del popolo Guna dall’isola di Gardi Sugdub, un piccolo paradiso corallino che fa parte delle San Blas. L’emergenza climatica sta lentamente sommergendo le 38 isole abitate dell’arcipelago, dove le case si trovano ormai a meno di un metro sopra il livello del mare, un livello che aumenta di 3,4 millimetri ogni anno. Con tempeste sempre più forti e frequenti che minacciano la stabilità degli edifici. Lo Smithsonian Tropical Research Institute di Panama City afferma che tutte queste isole saranno inabitabili entro la fine del secolo.
Gardi Sugdub è considerata la più vulnerabile e i suoi abitanti sono i primi a trasferirsi. Se le cose andranno bene, potranno seguirli anche gli altri. «È un evento storico», sostiene Rogelio Paredes, ministro per l’edilizia abitativa di Panama: «Per la prima volta, a causa dell’emergenza climatica, un’intera comunità si trasferisce sulla terraferma». In realtà i residenti più anziani di Gardi Sugdub hanno notato da anni gli effetti striscianti del cambiamento: le inondazioni nella stagione delle piogge sono diventate più frequenti, ora le acque dell’oceano si sono mangiate le spiagge e lambiscono le case. Lo spazio esterno in cui i bambini potevano giocare si è ridotto sempre più. José Davis, il leader ottuagenario dell’isola, racconta che la comunità ha iniziato a pianificare un trasloco negli anni Novanta. L’idea aveva ricevuto supporto finanziario e tecnico dalla Banca interamericana di sviluppo come progetto di migrazione climatica nel 2018. Il governo ha quindi bandito gare per la costruzione del nuovo insediamento sulla terraferma.
Il nuovo villaggio, battezzato Isber Yala in onore dei nespoli che vi prosperano, è stato costruito su terreni agricoli di proprietà della comunità, a un’ora di barca da Gardi Sugdub. Trecento case beige con il tetto di tegole sono disposte a griglia. Ognuna ha due camere da letto, un bagno con acqua corrente e un ampio giardino sul retro. Marcos Suira, responsabile del progetto nel ministero dell’edilizia abitativa, sottolinea che Isber Yala è il primo insediamento di questo genere. Ma il nuovo assetto non sembra molto gradito ai nuovi residenti. Nel giro di pochi minuti dall’arrivo a Isber Yala avevano già appeso delle amache, i letti preferiti dai Guna, alle travi metalliche delle case.
Il n uovo insediamento non è ancora allacciato alla rete elettrica, non c’è un sistema di raccolta dei rifiuti né un mezzo pubblico per il porto: problema non da poco, visto che la maggior parte dei residenti lavora nella pesca e nel turismo dell’isola. Il guscio di cemento di un ospedale, col cantiere fermo per mancanza di fondi, marcisce al sole. Ma accanto c’è una grande scuola, che sarà aperta entro la fine dell’anno. Con aule climatizzate, dormitori e un campo da calcio, la scuola è stata una grande attrazione per le famiglie che hanno accettato il trasferimento. Le lezioni saranno tenute sia in spagnolo sia in guna. E loro, i Guna, sperano che il trasferimento non provochi un grave sradicamento culturale. La gente delle San Blas viveva sulla terraferma fino a 200 anni fa, prima di trasferirsi sulle isole per sfuggire alla ferocia degli invasori spagnoli e alle malattie portate dalla colonizzazione. Molti canti cerimoniali fanno riferimento ai fiumi e alle montagne della terraferma.
Almeno 41 milioni di persone, solo in America Latina e nei Caraibi, secondo i calcoli dell’Onu, vivono in zone costiere esposte a tempeste e inondazioni dovute alla crisi del clima, che prima o poi le costringeranno a un trasferimento. Questo primo caso ha buone possibilità di funzionare anche perché si svolge su terre già di proprietà dei nuovi residenti. I programmi di trasferimento hanno maggiori probabilità di successo quando includono le comunità nel processo decisionale, soddisfacendo così le esigenze della popolazione colpita.
Completamente diversa è la situazione nel Pacifico, dove gli arcipelaghi minacciati sono lontani migliaia di chilometri dalla terraferma australiana. La distruzione dell’identità collettiva attraverso la perdita della propria terra è già stata documentata nelle isole Figi, dove le ricollocazioni nell’entroterra di alcune comunità costiere ha spazzato via le strutture sociali di alcuni villaggi. Lo sradicamento sarà ancora peggiore quando le comunità saranno costrette ad abbandonare le proprie isole per trasferirsi lontano, com’è già previsto per l’isola-Stato di Tuvalu, che l’anno scorso ha firmato un accordo con l’Australia per assicurare l’accoglienza della propria gente sul Continente.