3 settembre 2024
LA SIGNORA COL CAGNOLINO Racconti d’amore Traduzione dal russo di Raffaella Belletti La signora col cagnolino I Correva voce che sul lungomare fosse comparso un nuovo personaggio: la signora col cagnolino
LA SIGNORA COL CAGNOLINO Racconti d’amore Traduzione dal russo di Raffaella Belletti La signora col cagnolino I
Correva voce che sul lungomare fosse comparso un nuovo personaggio: la signora col cagnolino. Dmitrij Dmitrič Gurov, che si trovava a Jalta già da due settimane e vi si era ormai ambientato, cominciò anch’egli a interessarsi ai nuovi venuti. Seduto alla terrazza del caffè Vernet aveva visto passare sul lungomare una giovane signora bionda di piccola statura, con in capo un cappellino, dietro la quale trotterellava un volpino bianco. In seguito l’aveva incontrata nel parco cittadino e nel giardino pubblico diverse volte al giorno. Passeggiava da sola, indossando sempre lo stesso cappellino, con il volpino bianco. Nessuno sapeva chi fosse e la chiamavano semplicemente così, la signora col cagnolino. «Se è qui senza marito e senza conoscenti» pensava Gurov, «varrebbe forse la pena di farne la conoscenza». Sebbene non ancora quarantenne, egli aveva già una figlia di dodici anni e due figli ginnasiali. Lo avevano fatto sposare presto, quando era ancora studente del secondo corso, e adesso sua moglie sembrava di vent’anni più vecchia di lui. Era una donna alta, dalle sopracciglia scure, diritta, grave e austera, una donna, come ella stessa amava definirsi, pensante. Leggeva molto, nello scrivere non usava il «segno duro» 1 , non chiamava il marito Dmitrij, bensì Dimitrij, ma nel profondo dell’animo lui la considerava limitata, gretta, inelegante, la temeva e non stava volentieri in casa. Aveva cominciato ormai da tempo a tradirla, e lo faceva spesso; per questo probabilmente diceva quasi sempre male delle donne, e quando in sua presenza si parlava di loro le definiva così: – Razza inferiore! Gli sembrava che le amare esperienze vissute lo avessero reso abbastanza esperto da fargliele chiamare come più gli piaceva, e tuttavia senza la «razza inferiore» non avrebbe potuto vivere neanche due giorni. In compagnia degli uomini si annoiava, era a disagio, taciturno e freddo, mentre quando si trovava in mezzo alle donne si sentiva libero, sapeva di cosa parlare e come comportarsi; e perfino tacere gli riusciva facile con loro. Nel suo aspetto, nel carattere, in tutta la sua natura c’era un che di seducente, di inafferrabile che rendeva le donne ben disposte nei suoi confronti e le attraeva; egli ne era consapevole, ed era a sua volta sospinto da non so quale forza verso di loro. Una reiterata esperienza, in verità un’amara esperienza, gli aveva insegnato da tempo che ogni relazione, che sulle prime rende così gradevolmente varia la vita e si presenta come un’avventura facile e piacevole, per le persone ammodo – soprattutto i moscoviti, difficili all’entusiasmo, indecisi, – si trasforma inevitabilmente in un vero e proprio problema assai complesso e tale da rendere in definitiva penosa la situazione. Ma ad ogni nuovo incontro con una donna interessante questa esperienza si dileguava chissà come dalla memoria, si aveva voglia di vivere e tutto sembrava semplice e divertente. Ed ecco che una volta, verso sera, mentre stava pranzando nel parco, la signora col cappellino si avvicinò lentamente andando a occupare il tavolo accanto al suo. La sua espressione, il portamento, l’abito, la pettinatura, tutto gli diceva che apparteneva alla buona società, era sposata, si trovava a Jalta per la prima volta, sola, e che vi si annoiava… Nei racconti sull’immoralità dei costumi locali c’era molto di falso, egli li disprezzava e sapeva che erano per lo più inventati da persone che avrebbero peccato anch’esse volentieri, se solo ne fossero state capaci; ma quando la signora si sedette al tavolo accanto, a tre passi da lui, quei racconti di facili conquiste, di gite sui monti, gli tornarono alla mente, e d’un tratto il pensiero allettante di una relazione rapida e fugace, di un’avventura con una donna sconosciuta di cui si ignora perfino il nome e il cognome, si impadronì di lui. Con un gesto affettuoso chiamò a sé il volpino e quando gli si fu avvicinato lo minacciò col dito. Il volpino cominciò a ringhiare. Gurov lo minacciò di nuovo. La signora si volse a guardarlo e subito abbassò gli occhi. – Non morde, – disse, e arrossì. – Gli si può dare un osso? – E al cenno affermativo di lei, le chiese affabilmente: – Siete arrivata a Jalta da molto? – All’incirca da cinque giorni. – Io invece sono qui ormai da due settimane. Rimasero un po’ in silenzio. – Il tempo passa in fretta, ma intanto qui è una tale noia! – disse leisenza guardarlo. – È soltanto un’abitudine dire che qui ci si annoia. Il borghesuccio che vive chissà dove, a Belevo o a Žizdra, quando è a casa sua non si annoia, ma appena arriva qui: «Ah, che noia! Ah, questa polvere!». Lo si crederebbe giunto da Granada. Lei si mise a ridere. Quindi continuarono entrambi a mangiare in silenzio, come sconosciuti; dopo pranzo, però, si avviarono uno accanto all’altra ed ebbe inizio una conversazione scherzosa, leggera, come suole avvenire tra persone libere, soddisfatte, alle quali è assolutamente indifferente dove andare o di che parlare. Passeggiavano e parlavano della strana luce del mare; l’acqua era di un colore lilla così tenue e caldo, percorsa da una striscia dorata gettata dalla luna. Parlavano dell’afa lasciata dalla giornata calda. Gurov raccontò che era di Mosca, che aveva studiato filologia ma lavorava in banca; che un tempo si era preparato per cantare in un teatro d’opera privato, ma aveva abbandonato, che a Mosca aveva due case… E da lei venne a sapere che era cresciuta a Pietroburgo ma si era sposata a S., dove viveva ormai da due anni, che avrebbe soggiornato a Jalta ancora un mese circa, e forse sarebbe stata raggiunta dal marito, che voleva anch’egli riposare un po’. Non seppe spiegargli in alcun modo dove lavorasse il marito, se alla direzione provinciale o alla giunta provinciale dello zemstvo 2 , cosa che parve ridicola anche a lei. Gurov venne inoltre a sapere che si chiamava Anna Sergeevna. Poi, una volta nella sua stanza, egli pensò a lei e a come il giorno seguente l’avrebbe probabilmente incontrata. Doveva essere così. Mentre si coricava ricordò che solo poco tempo prima ella era una collegiale e studiava, esattamente come sua figlia adesso, ricordò quanta timidezza e quanto imbarazzo vi fosse ancora nel suo riso, nel suo modo di conversare con uno sconosciuto; doveva essere la prima volta in vita sua che si trovava sola in un simile frangente, con qualcuno che la corteggiava, la guardava, le parlava con un unico fine segreto che lei non poteva non indovinare. Ricordò il suo collo sottile, fragile, gli occhi belli, grigi. «Tuttavia c’è in lei qualcosa che suscita compassione» pensò, e cominciò a prender sonno. II Dal loro primo incontro era ormai trascorsa una settimana. Era un giorno di festa. Nelle stanze si soffocava e nelle strade, spazzate da turbini di polvere, il vento faceva volare via i cappelli. La sete li aveva assillati per tutta la giornata, e Gurov si era recato spesso sulla terrazza del caffè per offrire ad Anna Sergeevna ora acqua e sciroppo, ora un gelato. Non sisapeva dove trovare rifugio. La sera, quando il vento si fu un po’ placato, andarono al molo per assistere all’arrivo del piroscafo. Sulla banchina passeggiava molta gente che vi si era riversata, con in mano mazzi di fiori, per ricevere qualcuno. Qui saltavano chiaramente agli occhi due particolarità dell’elegante folla di Jalta: le signore anziane erano vestite come le giovani, e c’era una gran quantità di generali. A causa del mare agitato il piroscafo arrivò tardi, quando il sole era già tramontato, e dovette fare a lungo manovra prima di attraccare al molo. Anna Sergeevna osservava il piroscafo e i passeggeri attraverso l’occhialino, quasi alla ricerca di qualche conoscente, e quando si volgeva verso Gurov le brillavano gli occhi. Parlava molto, facendo domande frammentarie di cui subito si dimenticava; poi nella calca perse l’occhialino. La folla elegante si andava disperdendo, ormai non si vedeva più nessuno, il vento si era completamente calmato, ma Gurov e Anna Sergeevna rimanevano, come in attesa che dal piroscafo scendesse ancora qualcuno. Anna Sergeevna ormai taceva e odorava i suoi fiori, senza guardare Gurov. – Verso sera il tempo è un po’ migliorato, – disse lui. – E adesso, dove andiamo? Vogliamo fare un giro in carrozza? Lei non rispose. Allora egli la guardò fisso e d’improvviso l’abbracciò e la baciò sulle labbra, fu investito dall’aroma e dall’umidità dei fiori, e subito si guardò attorno, temendo che qualcuno li avesse visti. – Andiamo da voi… – disse piano. E si avviarono svelti insieme. Nella stanza di lei si soffocava, l’aria era impregnata dal profumo che ella aveva comperato nel negozio giapponese. Gurov, nel guardarla ora, pensava: «Che incontri avvengono nella vita!». Del passato gli era rimasto impresso il ricordo di donne spensierate, benevole, rese allegre dall’amore, che gli erano grate per quella sia pur brevissima felicità; di altre – come ad esempio sua moglie – che amavano senza sincerità, con discorsi superflui, in modo affettato, isterico, dando a vedere che non si trattasse di amore, di passione, ma di qualcosa di più importante; e di altre ancora, due o tre, molto belle, fredde, sul cui volto balenava d’un tratto un’espressione rapace, il desiderio caparbio di prendere, di strappare alla vita più di quanto potesse concedere, e queste erano donne non più giovanissime, capricciose, irragionevoli, autoritarie, poco intelligenti, e la cui bellezza, quando Gurov perdeva interesse nei loro confronti, suscitava in lui odio, facendogli apparire come squame i merletti della loro biancheria. Qui, invece, sempre quella timidezza, la goffaggine della gioventù inesperta, un senso d’imbarazzo; e un’impressione di smarrimento, come se all’improvviso qualcuno avesse bussato alla porta. Anna Sergeevna, la «signora col cagnolino», aveva assunto un atteggiamento particolare, assai serio, verso quanto era successo, quasi si trattasse della sua caduta, così almeno sembrava, e ciò era strano e fuori luogo. I suoi lineamenti si erano sciupati, avvizziti, e ai lati del viso i lunghi capelli pendevano tristemente; era rimasta assorta in una posa malinconica, come la peccatrice di un vecchio quadro. – Non sta bene, – disse. – Voi per primo adesso non mi stimerete più. Sul tavolo della stanza c’era un’anguria. Gurev se ne tagliò una fetta e si mise a mangiarla lentamente. Trascorsero in silenzio almeno mezz’ora. Anna Sergeevna era commovente, da lei spirava la purezza della donna onesta, ingenua, inesperta; il suo volto era appena illuminato da una candela che ardeva solitaria sul tavolo, ma ne appariva evidente la sofferenza interiore. – Perché dovrei smettere di stimarti? – chiese Gurov. Non sai neanche tu quello che dici. – Che Dio mi perdoni! – disse lei, e gli occhi le si riempirono di lacrime. – È terribile. – Sembra che tu voglia giustificarti. – E come potrei giustificarmi? Sono una donna cattiva, vile, io mi disprezzo e non penso a giustificazioni. Non ho ingannato mio marito, ma me stessa. E non solo adesso, è già molto tempo che mi vado ingannando. Mio marito è forse un uomo onesto, buono, ma è pur sempre un lacchè! Non so cosa faccia là, in cosa consista il suo lavoro, so soltanto che è un lacchè. Quando l’ho sposato avevo vent’anni, ero tormentata dalla curiosità, avevo voglia di qualcosa di meglio; deve pur esserci, mi dicevo, un’altra vita. Volevo vivere! Vivere e ancora vivere… La curiosità mi bruciava… voi non lo capite, ma io, lo giuro davanti a Dio, non riuscivo più a dominarmi, mi stava accadendo qualcosa, non era possibile trattenermi, ho detto a mio marito che ero malata e sono venuta qui… E una volta qui non ho fatto altro che camminare, come in preda al delirio, come folle… ed ecco, sono diventata una donna volgare, meschina, degna del disprezzo di ognuno. Gurov si era ormai annoiato ad ascoltare, lo irritava il tono ingenuo, quella confessione tanto inaspettata e inopportuna; se lei non avesse avuto gli occhi colmi di lacrime, si sarebbe potuto pensare che scherzasse o recitasse una parte. – Non capisco, – disse a bassa voce, – cosa vuoi? Ella nascose il viso sul suo petto e glisistrinse contro. – Credete, credetemi, vi scongiuro… – diceva. – Io amo la vita onesta, pura, e il peccato mi ripugna, non so neanch’io cosa stia facendo. Le persone semplici dicono: è stato il maligno a tentarmi. E ora anch’io posso dire di essere stata tentata dal maligno. – Basta, basta, – borbottava lui. La guardava negli occhi immobili, impauriti, la baciava, le parlava con voce sommessa e affettuosa, e lei si calmò un po’ e tornò a essere allegra; entrambi si misero a ridere. Poi, quando uscirono, sul lungomare non c’era anima viva, la città con i suoi cipressi aveva un’aria completamente inanimata, ma il mare continuava a rumoreggiare e a infrangersi sulla riva; una barca si dondolava sulle onde, e sopra vi baluginava sonnolenta una piccola lanterna. Trovarono una vettura e andarono a Oreanda. – Poco fa, giù nell’atrio, ho saputo il tuo cognome: sulla tabella c’è scritto von Dideritz, – disse Gurov. – Tuo marito è tedesco? – No, suo nonno, forse, era tedesco, ma lui è ortodosso. A Oreanda si sedettero su una panchina, non lontano dalla chiesa, guardando in silenzio il mare sotto di loro. Jalta era appena visibile attraverso la nebbia del mattino, sulle cime dei monti stavano immobili bianche nubi. Le foglie degli alberi erano immote, le cicale frinivano e il monotono, sordo rombo del mare che giungeva di laggiù parlava della pace, del sonno eterno che ci attende. Così rumoreggiava, giù in basso, quando là non c’erano ancora né Jalta, né Oreanda, così rumoreggia ora e rumoreggerà in maniera altrettanto sorda e indifferente quando non ci saremo più. E in questa costanza, nell’assoluta indifferenza verso la vita e la morte di ognuno di noi, si cela forse il pegno della nostra salvezza eterna, dell’incessante moto della vita sulla terra, dell’ininterrotta perfezione. Sedendo accanto alla giovane donna, che all’alba appariva così bella, Gurov, tranquillo e incantato alla vista di quel paesaggio di fiaba – il mare, i monti, le nuvole, il vasto cielo, pensava a come, in sostanza, a ben vedere tutto è stupendo a questo mondo, tutto tranne ciò che noi stessi pensiamo e facciamo allorché dimentichiamo i fini supremi dell’esistenza e la nostra dignità umana. Si avvicinò un uomo, probabilmente un guardiano, gettò loro un’occhiata e si allontanò. Anche questo dettaglio sembrò tanto misterioso e bello al tempo stesso. Videro arrivare il piroscafo da Feodosija, illuminato dall’aurora, le luci ormaispente. – L’erba è coperta di rugiada, – disse Anna Sergeevna rompendo il silenzio. – Sì. È tempo dirientrare. Tornarono in città. In seguito presero l’abitudine di incontrarsi a mezzodì sul lungomare, facevano colazione assieme, pranzavano, passeggiavano, contemplavano il mare estasiati. Lei si lamentava di dormire male e di avere le palpitazioni, faceva sempre le stesse domande, agitata ora dalla gelosia, ora dal timore che egli non la stimasse abbastanza. E spesso, nel giardino pubblico o nel parco, quando non c’era nessuno nelle vicinanze, egli all’improvviso l’attirava a sé e la baciava con passione. L’ozio assoluto, quei baci in pieno giorno, circospetti, con la paura che qualcuno li vedesse, il caldo, il profumo del mare e il continuo balenare davanti agli occhi di persone oziose, eleganti, sazie, lo avevano come rigenerato; diceva ad Anna Sergeevna quanto fosse bella e seducente, era in preda a una passione impaziente, non si allontanava neanche di un passo da lei, mentre ella rimaneva spesso pensierosa e continuava a chiedergli di confessare che non la stimava, non l’amava affatto, ma vedeva in lei solo una donna volgare. Quasi ogni sera sul tardi andavano fuori città, a Oreanda o alla cascata; e la passeggiata era piacevole, e ogni volta le loro impressioni erano immancabilmente bellissime e maestose. Aspettavano l’arrivo del marito. Ma giunse una sua lettera in cui annunciava di essersi ammalato agli occhi, e supplicava la moglie di tornare a casa al più presto. Anna Sergeevna affrettò i preparativi. – È un bene che io parta, – diceva a Gurov. – È il destino che lo vuole. Partì in carrozza, e lui l’accompagnò. Viaggiarono tutto il giorno. Mentre saliva sul vagone del treno rapido e si sentiva suonare il secondo campanello, ella disse: – Permettetemi di guardarvi ancora una volta… Ancora una volta. Ecco, così. Non piangeva, ma era triste, quasi fosse malata, col viso percorso da un tremito. – Vi penserò… ricorderò, – diceva. – Il Signore sia con voi, rimanete. Non serbatemi rancore. Noi ci diciamo addio per sempre, è necessario che sia così, perché non sarebbe assolutamente conveniente incontrarci ancora. Beh, il Signore sia con voi. Il treno si allontanò veloce, le sue luci ben presto scomparvero, e un minuto dopo non se ne sentiva già più il rumore, quasi che ogni cosa si fosse accordata a bella posta per interrompere quanto prima quel dolce deliquio, quella follia. Rimasto solo sulla piattaforma con lo sguardo fisso nella scura lontananza, Gurov ascoltava lo stridere dei grilli e il ronzio dei cavi del telegrafo con la sensazione di essersi appena destato. E pensava che ecco, nella sua vita c’era stata un’altra avventura, un’altra storia, che si era anch’essa conclusa e di cui ora non rimaneva che il ricordo… Era turbato, triste, e provava un leggero rimorso; perché quella giovane donna che non avrebbe mai più rivisto non era stata felice con lui; egli era stato con lei gentile e affettuoso, ma nel suo modo di trattarla, nel suo tono e nelle sue carezze trapelava pur sempre un’ombra di lieve scherno, la rozza presunzione dell’uomo felice, per di più con quasi il doppio dei suoi anni. Lo aveva sempre definito buono, straordinario, nobile; evidentemente le era apparso diverso da com’era in realtà, e dunque l’aveva involontariamente ingannata… Lì alla stazione si sentiva già l’odore dell’autunno, la sera era fresca. «È tempo che anch’io torni al nord» pensava Gurov, allontanandosi dalla banchina. «È tempo!». III A casa, a Mosca, tutto procedeva ormai come in inverno, si accendevano le stufe e la mattina, quando i figli si preparavano ad andare al ginnasio e bevevano il tè, era buio e la governante accendeva un poco il lume. Erano già cominciati i primi geli. Quando comincia a cadere la neve, il primo giorno in cui si esce in slitta, fa piacere vedere la terra bianca, i tetti candidi, si respira facilmente, a pieni polmoni, ed è allora che tornano alla mente gli anni della giovinezza. I vecchi tigli e le betulle, bianchi di brina, hanno un aspetto benevolo, sono più vicini al cuore che non i cipressi e le palme, e accanto a essi non si ha più voglia di pensare ai monti e al mare. Gurov era di Mosca, tornò nella sua città in una bella giornata di gelo, e quando indossò la pelliccia e i guanti caldi, e andò a passeggiare sulla Petrovka, quando il sabato sera sentì ilsuono delle campane, il recente viaggio e i luoghi che aveva visitato persero per lui ogni incanto. A poco a poco si rituffò nella vita moscovita, e già divorava avidamente da cima a fondo tre giornali al giorno, sostenendo di non leggere per principio quelli di Mosca. Era di nuovo attratto dai ristoranti, dai circoli, dai pranzi di gala, dalle ricorrenze, e si sentiva nuovamente lusingato di accogliere in casa sua noti avvocati e artisti, e di poter giocare a carte al circolo dei medici con un professore. Poteva ormai mangiarsi uIl’intera porzione di soljanka 3 al tegame… Ancora un mese, forse, e Anna Sergeevna, così gli sembrava, nella sua memoria sarebbe stata avvolta dalla nebbia e soltanto raramente gli sarebbe apparsa in sogno col suo sorriso commovente, come gli accadeva con le altre. Ma passò più di un mese, era ormai inverno inoltrato, e nella sua memoria tutto era chiaro, come se si fosse separato da Anna Sergeevna appena il giorno prima. E i ricordi ardevano con intensità sempre crescente. Sia che nel silenzio della sera giungessero nel suo studio le voci dei figli che preparavano le lezioni, sia che sentisse una romanza o ilsuono di un organetto al ristorante, o la tempesta ululasse nel camino, all’improvviso ogni cosa gli riviveva nella memoria: e quanto era successo sul molo, e la mattina presto con la nebbia sui monti, e il piroscafo da Feodosija, e i baci. Camminava a lungo per la stanza in preda ai ricordi, sorridendo, poi i ricordi si trasformavano in sogni e nell’immaginazione il passato si mescolava al futuro. Anna Sergeevna non gli appariva in sogno, ma lo accompagnava ovunque come un’ombra vegliando su di lui. Se chiudeva gli occhi, la vedeva quasi fosse viva e gli sembrava più bella, più giovane e più tenera che nella realtà; e lui stesso appariva migliore di quanto non fosse allora a Jalta. La sera lei lo guardava dalla libreria, dal camino, da un angolo, egli ne sentiva il respiro, il dolce fruscio dell’abito. Per strada accompagnava con lo sguardo le donne, cercandone qualcuna che le somigliasse… Già lo tormentava un intenso desiderio di dividere con qualcuno i propri ricordi. Ma in casa non poteva parlare del suo amore, e fuori casa non c’era nessuno con cui farlo. Non certo con gli inquilini, né in banca. E di che parlare, poi? Era stato forse amore, quello? C’era forse stato qualcosa di bello, di poetico o di edificante, o semplicemente di interessante nei suoi rapporti con Anna Sergeevna? Era costretto a parlare vagamente dell’amore, delle donne, e nessuno indovinava di cosa si trattasse, e soltanto la moglie sollevava le scure sopracciglia e diceva: – A te, Dimitrij, non si addice davvero ilruolo del damerino. Una notte, uscendo dal circolo dei medici con il suo compagno di gioco, un funzionario, non si trattenne e disse: – Se voi sapeste che donna incantevole ho conosciuto a Jalta! Il funzionario salì in slitta e partì, ma all’improvviso si voltò e chiamò: – Dmitrij Dmitrič! – Sì? – Poco fa avevate ragione: lo storione aveva un cattivo odore! Queste parole, così comuni, chissà perché d’un tratto indignarono Gurov, gli sembrarono umilianti, sudicie. Che costumi rozzi, che gente! Che notti balorde, che giorni insulsi, insignificanti! Giocare freneticamente a carte, ingozzarsi, ubriacarsi, discorrere continuamente sempre delle stesse cose. Occupazioni inutili e conversazioni sempre uguali si portano via la parte migliore del tempo, le forze migliori, e alla fine rimane una vita mutila, senz’ali, una nullità dalla quale non si può fuggire, evadere, come se si fosse in un manicomio o in una squadra di condannati ai lavori forzati! In preda allo sdegno, Gurov non chiuse occhio per tutta la notte, e passò tutto il giorno seguente con il mal di testa. Anche le notti successive dormì male, seduto tutto il tempo sul letto a pensare, oppure camminando da un angolo all’altro della stanza. Gli erano venuti a noia i figli, la banca, non aveva voglia di andare da nessuna parte, né di parlare di alcunché. In dicembre, in occasione delle feste, si preparò a partire, disse alla moglie che andava a Pietroburgo a brigare per un certo giovanotto, e partì per S. Perché? Non lo sapeva bene neanche lui. Aveva voglia di vedere Anna Sergeevna, di parlare con lei e, se possibile, organizzare un convegno. Arrivò a S. di mattina e all’albergo occupò la stanza migliore, dove tutto il pavimento era rivestito di panno militare grigio e sul tavolo c’era un calamaio, grigio di polvere, con un uomo a cavallo che teneva un cappello nella mano sollevata, ma aveva la testa staccata. Il portiere gli diede le informazioni necessarie: von Dideritz viveva in via Staro-Gončarnaja, in una casa di proprietà non lontano dall’albergo, viveva bene, agiatamente, possedeva cavalli propri ed era conosciuto da tutti in città. Il portiere pronunciava il suo nome così: Drydyritz. Gurov si diresse senza fretta in via Staro-Gončarnaja e si mise alla ricerca della casa. Proprio davanti a essa si stendeva una lunga palizzata grigia, irta di chiodi. «Da una simile palizzata non si può che scappare» pensò Gurov, spostando lo sguardo da questa alle finestre. Rifletteva: quello era un giorno di festa, e probabilmente il marito era in casa. Comunque, sarebbe stato sconveniente farsi ricevere e creare imbarazzo. Se avesse mandato un biglietto, sarebbe magari capitato nelle mani del marito e allora avrebbe rischiato di rovinare tutto. La cosa migliore era affidarsi al caso. Continuò dunque a camminare su e giù per la strada e lungo la palizzata, in attesa che quel caso si presentasse. Vide entrare dal cancello un mendicante che fu assalito dai cani, poi, un’ora dopo, gli giunsero, deboli e vaghe, le note di un pianoforte. A suonare doveva essere Anna Sergeevna. A un tratto la porta principale si aprì e ne uscì una vecchietta, dietro la quale trotterellava il volpino bianco a lui ben noto. Gurov avrebbe voluto chiamare il cane, ma all’improvviso cominciò a battergli il cuore e per l’emozione non riuscì a ricordarne il nome. Continuava ad andare su e giù, con un odio sempre crescente verso la palizzata grigia, pensando già con stizza che Anna Sergeevna si era dimenticata di lui e forse si stava già divertendo con un altro, cosa del tutto naturale per una giovane donna costretta a vedere dalla mattina alla sera quella maledetta palizzata. Tornò nella sua stanza e sedette a lungo sul divano senza sapere che fare, quindi, dopo aver pranzato, dormì a lungo. «Com’è sciocco e fastidioso tutto ciò» pensò al suo risveglio, guardando le finestre buie; era già sera. «Chissà perché ho fatto questa gran dormita. E stanotte cosa farò?» Sedeva sul letto, sul quale era stesa una coperta grigia dozzinale, come quelle degli ospedali, e si scherniva con stizza: «Eccoti dunque la signora col cagnolino… Eccoti l’avventura… E adesso stattene seduto qui». Già la mattina, alla stazione, gli era saltato agli occhi un cartellone scritto a lettere cubitali: si dava per la prima volta la Geisha 4 . Se ne ricordò e andò a teatro. «È molto probabile che vada alle prime» pensava. Il teatro era pieno. Anche qui, come in genere in tutti i teatri di provincia, al di sopra del lampadario aleggiava una nebbiolina e il loggione si agitava rumorosamente; in prima fila, in attesa dell’inizio della rappresentazione, stavano in piedi i bellimbusti locali, con le mani dietro la schiena; anche qui, nel palco del governatore, al primo posto sedeva la figlia del governatore avvolta in un boa, mentre il governatore stesso si nascondeva discretamente dietro la tenda, e se ne scorgevano soltanto le mani; il sipario ondeggiava, l’orchestra accordava ormai da tempo gli strumenti. Finché il pubblico continuò a entrare e a prendere posto, Gurov non cessò di cercare avidamente con gli occhi. Entrò anche Anna Sergeevna. Si sedette in terza fila, e quando la scorse Gurov ebbe una stretta al cuore e comprese chiaramente che ora in tutto il mondo non c’era per lui persona più vicina, più cara e più importante; lei, persa tra quella folla di borghesucci, quella piccola donna che non aveva nulla di speciale, con un volgare occhialino tra le mani, riempiva ora tutta la sua vita, era la sua pena e la sua gioia, l’unica felicità che ora egli desiderasse per sé; e al suono di quell’orchestra scadente, di quei miserabili violini di provincia, egli pensava a quanto fosse bella. Pensava e sognava. Assieme ad Anna Sergeevna era entrato e aveva preso posto accanto a lei un giovanotto dalle basette corte, molto alto, un po’ curvo; a ogni passo faceva dondolare la testa, dando l’impressione di salutare continuamente qualcuno. Probabilmente era il marito, che allora a Jalta, in un accesso di amarezza, lei aveva definito lacchè. In effetti nell’alta figura, nelle basette, nella leggera calvizie c’era un che di modesto proprio del lacchè; aveva un sorriso melenso e all’occhiello gli luccicava non so quale distintivo accademico, che ricordava il numero sulle giacche dei camerieri. Durante il primo intervallo il marito uscì a fumare e leirimase in poltrona. Gurov, che aveva preso posto anch’egli in platea, le si avvicinò e con voce tremante, sforzandosi disorridere, disse: – Buona sera. Ella lo guardò e impallidì, quindi lo guardò di nuovo con terrore, non credendo ai propri occhi, e strinse forte tra le mani il ventaglio e l’occhialino insieme, lottando evidentemente con se stessa per non svenire. Tacevano entrambi. Lei sedeva, lui stava in piedi, spaventato dal suo turbamento, senza decidersi a prendere posto al suo fianco. Fu la volta dei violini e del flauto di essere accordati, e d’un tratto li invase la paura, come se da tutti i palchi li stessero osservando. Ma ecco, ella si alzò e si avviò rapida verso l’uscita; lui la seguì, ed entrambi si aggirarono senza meta per scale e corridoi, ora salendo, ora scendendo, mentre davanti ai loro occhi balenavano uomini in uniformi da giudice, da insegnante e da nobile, e tutti con distintivi; balenavano dame, pellicce sugli attaccapanni, e intanto la corrente d’aria diffondeva l’odore dei mozziconi delle sigarette. E Gurov, al quale batteva ancora forte il cuore, pensava: «Oh Signore! Che senso ha tutta questa gente, questa orchestra…». In quell’istante gli tornò ad un tratto alla mente come, la sera che aveva accompagnato Anna Sergeevna alla stazione, si fosse detto che era tutto finito e che non si sarebbero mai più rivisti. Invece, quanto era ancora lontana la fine! Su una scala stretta e buia, con la scritta «Ingresso all’anfiteatro», ella si fermò. – Come mi avete spaventata! – disse respirando affannosamente, tuttora pallida, stordita. – Ah, come mi avete spaventata! Sono viva per miracolo! Perché siete venuto? Perché? – Ma cercate di capire, Anna, cercate di capire… – disse lui sottovoce, concitato. – Visupplico, cercate di capire… Lei lo guardava con un’aria impaurita, implorante e innamorata, lo guardava fisso, per trattenerne più saldamente i lineamenti nella memoria. – Soffro tanto! – continuò lei, senza ascoltarlo. – In tutto questo tempo non ho fatto che pensare a voi, sono vissuta del vostro ricordo. E vorrei dimenticare, dimenticare, ma perché, perché siete venuto? Più in alto, sul pianerottolo, due ginnasiali fumavano e guardavano in basso, ma a Gurov era indifferente, attirò a sé Anna Sergeevna e cominciò a baciarle il viso, le guance, le mani. – Che fate, che fate! – diceva lei terrorizzata, cercando di allontanarlo da sé. – Abbiamo perso la testa. Partite oggi stesso, partite subito… Vi scongiuro su quanto avete di più sacro, vi supplico… Viene gente! Qualcuno stava salendo su per la scala. – Dovete partire… – continuava Anna Sergeevna in un sussurro. – Mi sentite, Dmitrij Dmitrič? Verrò io da voi a Mosca. Non sono mai stata felice, mai! Non costringetemi a soffrire ancora di più! Ve lo giuro, verrò a Mosca. Ma ora separiamoci! Mio amato, buono, mio caro, separiamoci! Gli strinse la mano e cominciò a scendere in fretta, senza smettere di guardarlo, e dai suoi occhi si capiva che davvero non era felice. Gurov rimase un po’ lì in ascolto, quindi, quando tutto si fu chetato, cercò il suo attaccapanni e uscì dal teatro. IV E Anna Sergeevna cominciò ad andare da lui a Mosca. Due o tre volte al mese lasciava S., dicendo al marito che si recava a consultare un professore riguardo a una sua malattia femminile, e il marito le credeva e non le credeva. Arrivata a Mosca, prendeva alloggio allo «Slavjanskij bazar» e mandava subito da Gurov un fattorino con un berretto rosso. Gurov andava da lei, senza che nessuno a Mosca ne sapesse nulla. Una volta egli si stava dunque recando da lei in una mattina d’inverno (il fattorino era stato da lui la sera prima ma non l’aveva trovato). Era in compagnia della figlia perché voleva accompagnarla al ginnasio, che era di strada. Cadeva una neve pesante, bagnata. – Ora ci sono tre gradi sopra zero, eppure nevica, – diceva Gurov alla figlia. – È perché soltanto alla superficie della terra la temperatura è così mite, negli strati superiori dell’atmosfera essa è completamente diversa. – Papà, e perché d’inverno non cisono tuoni? Lui le spiegò anche questo. Parlava, e intanto pensava che si stava recando a un appuntamento, e che non c’era, e probabilmente non ci sarebbe mai stato, nessuno che ne sapesse qualcosa. Aveva due vite: una chiara, manifesta e nota a tutti coloro che avevano bisogno che così fosse, piena di verità convenzionale e di inganno altrettanto convenzionale, in tutto simile a quella dei suoi conoscenti e amici, e un’altra che scorreva segretamente. E per un singolare concorso di circostanze, forse casuale, tutto ciò che per lui era importante, interessante, necessario, in cui era sincero e non ingannava se stesso, che rappresentava il nucleo della sua vita, avveniva all’insaputa degli altri, mentre tutto ciò che in lui c’era di falso, l’involucro nel quale si avvolgeva per nascondere la verità, come ad esempio il suo lavoro in banca, le discussioni al circolo, la sua «razza inferiore», la sua partecipazione ai ricevimenti in compagnia della moglie, tutto ciò avveniva alla luce del sole. E sul proprio esempio egli giudicava gli altri, non credeva a quanto vedeva e supponeva sempre che ogni uomo vivesse la sua vera vita, la più interessante, sotto il velo della segretezza, come sotto un velo di tenebre. L’esistenza di ognuno si regge sul mistero, e forse è in parte per questo che l’uomo civile si adopera tanto convulsamente perché venga rispettato il segreto individuale. Accompagnata la figlia al ginnasio, Gurov si recò allo «Slavjanskij bazar». Si tolse la pelliccia da basso, poi salì di sopra e bussò piano alla porta. Anna Sergeevna, nell’abito grigio che lui preferiva, esausta per il viaggio e l’attesa, lo aspettava dalla sera prima; era pallida, lo guardava senza sorridere e appena entrato gli si strinse al petto. Quasi non si fossero visti da un paio d’anni, il loro bacio fu intenso, prolungato. – Beh, come vanno le cose laggiù? – egli chiese. – Che c’è di nuovo? – Aspetta, ora ti dico… Non posso. Non riusciva a parlare, in preda alle lacrime. Gli voltò le spalle e si premette il fazzoletto sugli occhi. «Ebbene, che pianga un po’, io intanto mi siedo» pensò lui, e si accomodò in poltrona. Quindi suonò e ordinò che gli portassero il tè; mentre lo beveva, poi, lei continuava a starsene in piedi, rivolta verso la finestra… Piangeva per l’agitazione, per la dolorosa consapevolezza del triste andamento assunto dalla loro vita; si vedevano solo segretamente, si nascondevano alla gente, come ladri! Non era forse distrutta la loro esistenza? – Su, smettila! – egli disse. Per lui era evidente che quel loro amore non sarebbe finito tanto presto, ma chissà quando. Anna Sergeevna si stava attaccando a lui sempre di più, lo adorava, e sarebbe stato impensabile dirle che un giorno tutto ciò sarebbe dovuto finire; non vi avrebbe certo creduto. Le si avvicinò e la prese per le spalle, per accarezzarla, scherzare un po’, e in quell’istante vide la propria immagine allo specchio. I suoi capelli cominciavano già a incanutirsi. E gli sembrò strano di essere tanto invecchiato negli ultimi anni, tanto imbruttito. Le spalle su cui poggiavano le sue mani erano calde e sussultavano. Egli provò compassione per quella vita ancora così ardente e bella, ma probabilmente già vicina al momento in cui avrebbe iniziato ad appassire e avvizzire, come la propria. Perché lo amava tanto? Alle donne egli appariva sempre diverso da quello che era, ed esse amavano in lui non l’uomo reale, bensì quello creato dalla loro immaginazione e di cui andavano avidamente alla ricerca nella loro vita; poi, quando si accorgevano dello sbaglio, continuavano comunque ad amarlo. E neanche una era stata felice con lui. Il tempo passava, egli conosceva nuove donne, intesseva con loro relazioni e se ne separava, ma non aveva amato neppure una volta; di tutto si era trattato, fuorché d’amore. E solo adesso, che aveva ormai i capelli grigi, si era innamorato come si deve, veramente, per la prima volta in vita sua. Lui e Anna Sergeevna si amavano come persone molto intime, vicine, come marito e moglie, come teneri amici; sembrava loro che il destino stesso li avesse predestinati l’uno all’altra, e riusciva incomprensibile perché lui fosse ammogliato e lei maritata; erano come due uccelli di passo, maschio e femmina, che fossero stati catturati e costretti a vivere in gabbie separate. Si erano perdonati a vicenda ciò di cui si vergognavano nel loro passato, si perdonavano tutto nel presente e si sentivano entrambi cambiati da questo loro amore. Prima, nei momenti tristi, egli si calmava con ogni sorta di ragionamenti che gli venissero in mente, ora invece era poco incline ai ragionamenti, provava una profonda compassione, voleva essere sincero, tenero… – Smettila, mia cara, – diceva. – Basta piangere… Adesso parliamo un po’, qualcosa troveremo. Quindi si consultavano a lungo, parlavano di come liberarsi della necessità di nascondersi, di ingannare, di vivere in città diverse, di non vedersi per lunghi periodi. Come liberarsi di queste insopportabili pastoie? – Come? Come? – chiedeva lui, prendendosi la testa tra le mani. – Come? E sembrava che sarebbe bastato ancora poco e la soluzione si sarebbe trovata, e avrebbe avuto allora inizio una vita nuova e meravigliosa; e ad entrambi era chiaro che la fine era ancora molto, molto lontana, e che la parte più complicata e difficile era appena iniziata. 1 Lettera dell’alfabeto russo priva di un suono proprio, abolita con la riforma ortografica del 1917, ma già in precedenza considerata inutile e non usata dagli intellettuali; delle tendenze intellettualistiche della moglie di Gurov testimonia anche l’uso della forma arcaica «Dimitrij» rispetto a quella più comune «Dmitrij» [Tutte le note sono a cura della traduttrice]. 2 Organo elettivo di autogoverno locale nella Russia zarista. 3 Piatto a base di carne o pesce con contorno di cipolle, cavoli, cetrioli e funghetti. 4 The Geisha, operetta del compositore inglese James Sidney Jones (1861–1946), composta nel 1896 e rappresentata con un certo successo in Russia alla fine del secolo.
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