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 2024  settembre 03 Martedì calendario

Superbi, miliardari e dissoluti Viaggio nella crisi del Manchester Utd

Maggio 1968. L’11 il Manchester City guidato da Joe Mercer vince il suo secondo titolo inglese all’ultima giornata sui rivali cittadini del Manchester United, che di titoli ne avevano già sette. The Citizens possono festeggiare con insolenza sotto il naso dei Red Devils, ma solamente per diciotto giorni, perché il 29 maggio, a Wembley, Best e compagni strapazzano il Benfica di Eusébio e conquistano la loro prima Coppa dei Campioni, la prima peraltro del calcio inglese, cancellando tutte le precedenti celebrazioni dei cugini. Una trentina d’anni più tardi, il 30 maggio 1999, il City vince la finale dei playoff a Londra contro il Gillingham ai rigori e torna in Premier League, dopo la retrocessione dell’anno precedente, mentre nello stesso mese lo United fa addirittura il Treble, vincendo campionato, Fa Cup e la sua seconda Champions League, offuscando così per la seconda volta nella storia un’affermazione del City. Nel maggio del 2023 a Manchester il mondo si è rovesciato, la squadra di Guardiola ha vinto la sua prima Champions League e il suo nono campionato, mentre quella allenata da Ten Hag si è dovuta accontentare della Coppa di Lega, l’ultimo dei trofei del calcio inglese.
La Spendaccioni League
Uno United che non vince la Premier League dal 2013 e la Champions dal 2008, nonostante la ricchezza del calcio inglese in questi ultimi vent’anni sia aumentata a dismisura rispetto ai concorrenti europei, e nonostante i Red Devils siano il secondo club ad aver speso di più nelle ultime cinque stagioni nella campagna acquisti: 773 milioni di euro, dietro il Chelsea con 782. Il Real Madrid con 218 è solo sedicesimo nella classifica redatta da Cies Football Observatory. Nelle prime cinque posizioni ci sono solo club inglesi, ma le cifre che fanno più paura sono altre, come il saldo delle ultime dieci stagioni: Manchester United meno 1,348 miliardi di euro, Chelsea meno 1,042 miliardi, Psg meno 959, e nella prima decina fa capolino il Milan con un saldo negativo di 561 milioni di euro. Se invece prendiamo in esame la movimentazione – sempre degli ultimi cinque campionati – tra entrate e uscite il Chelsea è primo con 2,572 miliardi di euro, City 1,726, Psg 1,404, una classifica che vede come unica italiana la Juventus: quinta con una movimentazione di 1,298 miliardi di euro. Ovviamente in tutte queste graduatorie è presente il Barcellona, con un saldo negativo di 231 milioni nelle ultime cinque stagioni, meno 661 nelle ultime dieci e una movimentazione negli ultimi cinque campionati di 1,333 miliardi di euro.
Un’ulteriore sottolineatura: delle ultime dieci Champions League, nove sono state vinte da Real Madrid (5), Barcellona, Bayern Monaco, Chelsea e Manchester City; tanto per ricordare che spendere e spandere a casaccio non sempre porta risultati sportivi, leggasi Psg.
Dizionario di una crisi
Ora, la crisi in casa del Manchester United sembra senza fine, ma la storia di questo club è fatta di alti e bassi, e di tante cicatrici. Molto bene negli anni Cinquanta, segnati dalla tragedia aerea di Monaco di Baviera, molto bene nei Sessanta, ma dopo l’ultimo titolo del 1967 avrebbe rivinto il campionato solo nel 1993. Nei Settanta solo una FA Cup e una retrocessione in Seconda Divisione, per rinascere negli Ottanta e tornare grande in Inghilterra e in Europa nei Novanta e nei primi Duemila, sotto la guida di Alex Ferguson. Prese la squadra nel 1986 per lasciarla nel 2013, vincendo 39 trofei (comprese le Charity Shield). Gli ultimi suoi dieci anni in panchina hanno coinciso con la nuova proprietà del club, quella famiglia Glazer che nel 2005 concluse la scalata allo United, iniziata nel 2003, per una cifra intorno ai 790 milioni di sterline. I già proprietari dei Tampa Bay Buccaneers, franchigia della Nfl, ne versarono 270. Il resto faceva parte di un’operazione di leveraged buyout – operazione di finanza che consiste nell’acquisire una società con denaro preso a prestito dalle banche – una manovra molto criticata dai tifosi perché quei prestiti sono stati fatti ricadere sulle casse del club.
A dicembre dello scorso anno il cambio tanto atteso alla guida della società, con l’ufficializzazione dell’accordo in base al quale il presidente di Ineos, Sir Jim Ratcliffe, acquisiva il 25% delle azioni di classe B del Manchester United e fino al 25% delle azioni di classe A, oltre a fornire altri 300 milioni di dollari destinati a futuri investimenti. Secondo quanto sostenuto da Sky Sports Uk, la cifra totale spesa è stata di 1,2 miliardi di sterline. Jim Ratcliffe adesso ha il controllo delle operazioni sportive, oltre ad avere voce in capitolo nella parte commerciale controllata dalla famiglia Glazer, la quale si è tenuta la fetta più interessante, considerando che dal 2003 a oggi il Manchester United ha prodotto qualcosa come 9 miliardi di euro di ricavi, fonte Deloitte.
La sarabanda in panchina
Il problema, però, più che economico – in generale non pare riguardare i club inglesi – sembra tecnico e sportivo. Il dopo Ferguson ha registrato una sola vittoria internazionale, l’Europa League nel 2017 con Mourinho in panchina, e altri cinque trofei, tra Fa Cup, Coppa di Lega e Charity Shield. Sono più di dieci anni che non vince la Premier, e quasi tutti gli allenatori che si sono succeduti sulla panchina dello United, se vogliamo escludere il mago di Setubal, hanno fallito: da Moyes a van Gaal, da Solskjaer a Rangnick, fino a ten Hag, lasciando perdere chi ha lavorato ad interim.
L’olandese ha perso il 28% delle partite in competizioni ufficiali, la più alta percentuale di sconfitte per un allenatore con almeno 100 gare con i Red Devils dai tempi di Tommy Docherty nel 1977 (28,5%). Dalla prima alla seconda stagione la percentuale di vittorie era già calata dal 66,13 al 48,08%, attualmente è al 25 per cento: andare avanti con lui è un accanimento terapeutico, al quale si aggiunge un mercato sbilenco che ripete sempre gli stessi errori senza mai rinforzare veramente la squadra. Colpa dell’allenatore, certo, ma anche di una società che non è mai sembrata capace, almeno nell’ultimo decennio, di invertire la rotta e affidarsi a persone competenti, che amino il calcio e il Manchester United.
Il club che gioca all’Old Trafford, il” Theatre of Dreams” trasformatosi nel Theatre of Fears, continua, comunque, a essere una macchina da soldi, con uno sponsor tecnico che nei prossimi dieci anni garantirà 900 milioni di sterline e ricavi che oscillano tra i 500 e i 600 milioni l’anno – con picchi sopra i 700 – calati durante la pandemia e poi prontamente risaliti. Un monte ingaggi raddoppiato negli ultimi dieci anni – in linea, comunque, con la media dei top club – e oltre due miliardi di sterline spesi in undici stagioni sul mercato, però, avrebbero dovuto portare ben altri risultati sportivi: ma i ritorni di Pogba e Cristiano Ronaldo, passando per Antony, strappato per 95 milioni di euro all’Ajax, arrivando poi a Sancho, Casemiro, Onana, Maguire, van de Beek e Varane – giocatori che sono costati dai 40 ai 90 milioni di euro a testa – non hanno fatto fare il salto di qualità al Manchester United, diventando parte del problema.
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Francesco Caremani
Il pacifismo secondo Gianni Amelio «Solo le mafie sparano a chi spara»
La guerra è un dovere nazionale a cui nessuno dovrebbe sottrarsi o un massacro che spinge le persone a uccidersi per ragioni che sfuggono al loro controllo? Due anni dopo Il signore delle formiche che rivisitava il processo per omosessualità dell’intellettuale Aldo Braibanti alla fine degli anni Sessanta, Gianni Amelio torna in concorso a Venezia con Campo di battaglia per esplorare un capitolo doloroso della nostra storia: la Grande guerra, che ha causato 16 milioni di vittime.
Fare un film pacifista come Campo di battaglia è un atto politico oggi?
Fare un film è soprattutto un atto politico, purtroppo la parola “pacifista” è consumata, il pacifismo non viene preso sul serio, è visto come qualcosa di lontano dalla realtà. Io invece sono battagliero e voglio combattere la battaglia delle idee, che è l’unica guerra giusta, perché lottare con le idee implica democrazia, rispetto e giusta convivenza anche nel disaccordo.
Perché le è più facile parlare del presente attraverso la maschera del film in costume?
Perché il presente è più indecifrabile del passato. Certo questo implica un vero studio della storia, e oggi abbiamo troppe fonti e alcune francamente da dimenticare. Il mio film mi permette, con l’arma dell’allegoria, di parlare dell’oggi. Si parte sempre dal presente, altrimenti si rischia di tradire il messaggio che si vuole trasmettere allo spettatore. Il rischio è quello di cadere nel cinema di genere, che io amo molto, ma i film di guerra, western, suspense o musical sono fondamentalmente intrattenimento. Guai ai film slogan anti guerra, ma anche attenzione a non trasformare un conflitto che ha lacerato diverse nazioni in divertimento. La guerra del ’15-’18 è stata la mattanza più mostruosa di esseri umani che sia stata compiuta in nome del potere.
Perché ha deciso di spostare le trincee in un ospedale militare, che poi diventa un campo di battaglia intimo, personale?
Il campo di battaglia non finisce dove finisce la lotta armata tra cosiddetti nemici. L’ospedale è un’altra trincea dove bisogna rimettere a posto i “pezzi difettosi” per continuare ad alimentare la macchina guerra, fare in modo che, se, per esempio, uno di loro si è guastato un braccio, con le cure riuscirà a premere di nuovo un grilletto. Volevo fare un film non di guerra, ma sulla guerra, e quindi il campo di battaglia diventa l’ospedale dove si continua a combattere con un’altra coscienza.
Qui la battaglia è tra due amici intimi, due ufficiali medici con posizioni sulla guerra agli antipodi e un potere di vita o di morte sui loro pazienti...
Ho voluto che fossero due amici proprio per evitare lo schematismo amico/nemico. Malgrado il loro legame, sono divisi da scelte etiche diverse, sono due personalità inquiete che incarnano due atteggiamenti e punti di vista differenti: da una parte c’è il militare puro e obbediente alle regole a cui hanno insegnato che la guerra è un dovere, dall’altro c’è un ricercatore che non riesce ad accettare la carneficina umana della guerra. La guerra è un dovere se si è costretti a difendersi, però la domanda personale che continua ad attanagliarmi è: come conciliare il concetto cristiano del porgi l’altra guancia con il difendersi da un’invasione? Albert Camus, che è uno dei miei scrittori preferiti e che ho studiato a fondo quando ho girato Il primo uomo, era un pacifista convinto, una posizione molto impopolare durante la Guerra d’Algeria, con la sinistra che era dalla parte di Jean-Paul Sartre. L’umanità, prima di tutto. Cercare l’accordo, quando c’è disaccordo. Sanare un conflitto con le armi ci trascina in un sistema mafioso tra nazioni. Sono le mafie che dicono “Se tu spari a me, io sparo a te”.
Come si pone riguardo all’escalation di orrore in Medio Oriente e in Ucraina?
Con dolore e rabbia. Israele ha un capo sciagurato che agisce contro il proprio Paese, e Hamas non è certamente l’organizzazione che può salvare la Palestina, anzi. Quindi si tratta di due popoli che hanno nemici al potere, perché la guerra è davvero il delitto più grande che l’umanità possa fare contro sé stessa. È giusto scappare da ogni guerra, ma ha visto come vengono accolti i profughi in Italia? Con diffidenza, razzismo, con un altro tipo di orrore che somiglia alla guerra, noi, popolo di migranti, siamo diventati come quelli contro i quali abbiamo combattuto…
Il film racconta anche l’arrivo dell’influenza spagnola, che fece più vittime della guerra stessa. È peggio la guerra o la pandemia?
È assolutamente peggio la guerra, che è il mezzo più nefasto di prevaricazione e purtroppo continua a fare vittime da millenni. Per le malattie anche pandemiche si sono trovati vaccini, oggi non si muore più di tubercolosi o di poliomielite, da cui ero terrorizzato da bambino. Pensi che colpì anche il figlio di Anna Magnani, l’attrice più importante d’Europa, e io, invece, figlio di poveri disgraziati, mi sono salvato.
Che cosa abbiamo imparato, secondo lei, dalla pandemia?
Abbiamo imparato che l’uomo continua a non essere immune all’ottusità: Il Covid ha portato effetti collaterali come i No-vax, i terrapiattisti o altri gruppi desiderosi di esserci a tutti i costi attraverso lo scontro… Invece di evolverci e trovare una salvezza, c’è un’umanità che cerca lo scontro.
È cambiato molto come regista negli ultimi anni?
Sono migliorato, nel senso che sono partito da una passione che mi ha salvato, senza cadere nella superficialità a cui ti può portare questo mestiere. Non ho fatto il regista per diventare una persona importante che frequenta solo i suoi simili, e non sono per niente ricco, perché, scusi la retorica, la ricchezza più grande è la libertà e io mi sento una persona molto libera, di fare le mie scelte senza cedere ai compromessi. Per esempio, quando mi hanno candidato all’Oscar per Le chiavi di casa non ci sono andato.
Perché no? L’Oscar è un compromesso e il Leone d’oro a Venezia per Così ridevano o il Gran Premio della giuria di Cannes per Il ladro di bambini no?
Perché l’Oscar ti cambia, ti porta a fare film da Oscar, che ambiscono a essere visti da mezzo mondo. Dover piacere a tutti abbassa per forza il livello di libertà creativa, di scrittura, di scelta di cosa raccontare.
Qual è il film in cui ha sentito di più di aver fatto compromessi?
Quello in cui ho subito più condizionamenti è stato I ragazzi di via Panisperna, che racconta il rapporto tra Majorana e Fermi, ispirato al saggio La scomparsa di Majorana di Sciascia. Era una storia a cui tenevo molto, ma all’inizio non era chiaro se sarebbe stato un film o una miniserie televisiva. Cosa piuttosto complicata, perché i tempi di narrazione tra una serie e un film sono molto diversi.
Ha mai pensato di girare una serie televisiva?
Magari! Purtroppo fino a ora mi hanno offerto cose che non sapevo fare, e quando c’è una cosa che non so fare lo dico: progetti che non sento miei, materiale che non so trattare, argomenti che non mi interessano. E, in fondo, se scorre la mia filmografia, i miei temi sono sempre gli stessi: la paternità, la fraternità, l’amore in tutte le sue forme e la migrazione. In Così ridevano, che considero il mio film migliore, racconto l’emigrazione nel Nord, a Torino, e la nascita della mafia. La mafia nasce dal familismo, dal fatto che, per amore di un fratello, per esempio, giustifico tutto, anche le azioni più illegali.
L’attore Vincent Cassel mi ha detto in un’intervista che a un certo punto della sua vita si è reso conto che andare al cinema era come scegliere di non vivere. Che cosa ne pensa?
Penso il contrario di Cassel, il cinema e i film che vedo fanno parte della mia vita. Vado continuamente in sala perché sento di comunicare con gli altri attraverso il cinema. È un mezzo che mi permette di scoprire culture lontanissime dalla mia, vedere un film coreano, di Taiwan o di un giovane regista sudamericano arricchisce la mia vita professionale e personale. Il cinema mi ha salvato e ha dato un senso alla mia esistenza. Non ho mai fatto differenza tra mia vita professionale e privata, e amo condividere la mia passione andando in sala con mio figlio, le mie nipoti e le persone che amo.