il Fatto Quotidiano, 2 settembre 2024
L’Italia si autorappresenta con reliquie del passato
“Questi capolavori – scrive il Corriere della Sera – sono altrettanti ambasciatori che parlano la lingua universale dell’arte. Con questo linguaggio saranno capaci di promuovere la causa italiana dinanzi ai più ostinati calunniatori, agli scettici e agli indifferenti, e di ricordare che l’Italia fu sempre la prima a spianare la strada della civiltà e del progresso… La mostra… è un segno portentoso dell’eterna vitalità della razza italica, che le ha reso possibile di esser sempre ed ovunque all’avanguardia, lasciando agli altri solo la libertà di imitare”. Chissà se il giornalone di Via Solferino, sempre in sintonia con il governo del momento, ripescherà pari pari questo suo bell’articolo del 1930, nato per celebrare la grande mostra di capolavori italiani a Burlington House, a Londra, voluta da Benito Mussolini in persona. L’occasione è qua, pronta: all’Esposizione Universale di Osaka, in Giappone, il governo Meloni spedirà nientemeno che l’Atlante Farnese, la celeberrima scultura di marmo del II secolo dopo Cristo – alta circa due metri e pesante oltre venti quintali – esposta al Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Sarà quel fragile colosso a rappresentare questo nuovo guizzo di vitalità della razza italica, viva e attiva alla faccia dei fantasmi della sostituzione etnica.
Nel 1930, Dino Grandi (che aveva seguito da vicino ogni fase della mostra) ottenne la nomina ad ambasciatore italiano a Londra: mentre oggi il guiderdone è stato preventivo, e il commissario generale per l’Italia a Expo 2025 è gia stato fatto ambasciatore di grado. Ed è lui: il mitico cantante fascio-rock in arte Katanga, al secolo Mario Vattani. “Un ambasciatore – scrive Paolo Berizzi – dalle dichiarate simpatie neofasciste. Uno che da ragazzo – era la notte del 9 giugno 1989 – all’uscita del cinema Capranica di Roma era con un gruppo di naziskin che massacrò di botte e sprangate due giovani. Finito ai domiciliari, Vattani fu poi prosciolto dalle accuse. Ma fu anche l’unico che risarcì le due vittime con 180 milioni di lire, ottenendo in cambio il ritiro del processo di rito civile”. Chi meglio di lui può rappresentare nel mondo il primo governo guidato da un partito di matrice fascista della storia della Repubblica? Il culto della romanità e l’uso (caricaturalmente) imperiale del nostro patrimonio culturale sono una costante della tradizione fascista, e d’altra parte tutti gli ultimi governi (e in essi, più di tutti, il nefando Dario Franceschini) hanno spedito ovunque di tutto e di più, bellamente incuranti di opportunità, continuità di esposizione e soprattutto tutela e conservazione delle opere d’arte arruolate al servizio della nazione.
Ma l’“Atlante Farnese al servizio del fascismo” (per parafrasare un celebre titolo di Francis Haskell) rappresenta un’ulteriore escalation. A Londra, nel 1930, fu mandato (criminosamente) il David di Donatello del Bargello, che rischiò seriamente di finire in fondo alla Manica insieme ad altre quisquillie caricate nella stiva del vascello Fortuna (la Nascita di Venere di Botticelli, Il Duca e la Duchessa di Urbino di Piero della Francesca dagli Uffizi, la Tempesta di Giorgione, la Bella e il Ritratto di inglese di Tiziano da Pitti, la Crocifissione di Masaccio da Napoli, la Flagellazione di Piero da Urbino, per citare solo qualche pezzo a caso…). Ma almeno quello era un bronzo: spedire un marmo così grande, pesante e articolato è un folle azzardo, la cui sprezzante e insultante temerarietà non sarà diminuita dalla sperabile miracolosa, assenza di danni. E, del resto, se qualche danno ci sarà, possiamo forse sperare che venga reso pubblico? O forse qualcuno, al Mic, spera proprio che l’Atlante non torni: vista l’impudenza con cui ostenta una volta del cielo tanto precisa, e utile ai naviganti, da far evocare a chi la vede i nomi di altri due grandi italiani, Colombo e Galileo: che imbarazzo! Tornando seri: ma era proprio necessario mandare un capolavoro di venti secoli fa? È possibile che l’Italia continui a rappresentare se stessa come una vecchia bagascia esausta che ogni volta che viene invitata in società sfoggia i sontuosi gioielli di quando era giovane e bella? Ma questi signori che si gasano citando in Parlamento il Manifesto del futurismo, non potrebbero almeno guardare all’Italia artistica di oggi, smettendola di rappresentare la famosa nazione come una stella morta che vive di rendita della luce di decine di secoli fa? Cosa sembreremo, ad Osaka? Una nazione di traslocatori di reliquie patrie. E i giapponesi non finiranno col pensare di noi ciò che James Joyce scrisse dei romani, che gli facevano l’impressione di quello che si manteneva mostrando ai turisti il cadavere pietrificato della nonna? Del resto, è pur vero che se vogliamo rappresentarci onestamente, noi che abbiamo un governo che vive culturalmente negli anni trenta del Novecento, dobbiamo puntare sul passato: coscienti di avere un grande avvenire, dietro le spalle.