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 2024  settembre 02 Lunedì calendario

Intervista a Paola Pitagora, attrice

Cominciamo dalla scelta del nome d’arte...
«Il mio vero cognome è Gargaloni – risponde Paola Pitagora – ma sin da ragazzina, alle elementari, venivo presa in giro. Quando la maestra faceva l’appello e pronunciava Gargaloni, i compagni esclamavano in coro: Gargarozzo!».

Chi le ha consigliato di cambiarlo?
«Molti anni dopo, quando ho iniziato il mestiere d’attrice, fu Renato Mambor, mio fidanzato all’epoca, a suggerirmi il cambiamento. Per gioco mi dette un consiglio, rivelatosi prezioso, dicendomi: piatta di seno come sei, potresti chiamarti tavola pitagorica... e, per un breve periodo, adottai il cognome Pitagorica, in realtà decisamente ridicolo. Così, mentre facevo un provino per il produttore Cristaldi, nel suo studio a piazza Pitagora, decisi di accorciare».
Mambor un artista visivo, pittore della celebre Scuola romana degli anni Sessanta: quando e come vi siete conosciuti?
«Nel 1958, perché anche Renato, molto prima di affermarsi come pittore, veniva nella mia stessa scuola di recitazione. Cominciammo a frequentarci e con lui ho scoperto quel mondo affascinante di artisti della pop art: li ascoltavo parlare, litigare, discutere, si amavano, si odiavano... un linguaggio colto, il loro, non osavo aprire bocca. Li seguivo ovunque, anche quando ci sedevamo sugli scalini della Chiesa degli Artisti a piazza del Popolo, davanti al bar Rosati. Non avevamo soldi, non potevamo permetterci nemmeno di consumare un caffè, troppo caro per le nostre tasche, però si facevano incontri affascinanti con Alberto Moravia, Pier Paolo Pasolini, Dacia Maraini...».
Quanto è durata quella storia d’amore?
«Circa una quindicina di anni, tra alti e bassi. Lo adoravo, ma mi tradiva spesso e una volta mi arrabbiai di brutto. Avevo commesso l’errore di fargli una sorpresa: suono il campanello del suo studio e sento internamente un tramestio. Mi insospettisco. Riesco a entrare e mi trovo davanti al “letto del peccato” dove aveva accolto la ragazzetta di turno e, da grande vigliacco, si era dileguato con lei da un ingresso secondario. Vado fuori di senno: acchiappo il materasso e lo scaravento giù dalle scale».
Lei non lo ha mai tradito?
«Ogni tanto mi prendevo delle cotte per attori affascinanti con cui lavoravo, però con grande onestà glielo andavo a riferire... e accadeva lo psicodramma».
Come siete finiti a essere scritturati addirittura da Federico Fellini ne «La dolce vita»?
«Un vero e proprio caso. Il padre di Renato aveva un distributore di benzina a Roma e lui, ogni tanto, per arrotondare, faceva anche il benzinaio. Era elegante, vestito con una tuta celeste, inoltre lui aveva gli occhi celesti. Un giorno si presenta a fare benzina il grande regista che, chissà come mai, è rimasto affascinato da tutto quel celeste... gli fa la proposta di partecipare al film e, siccome gli serviva pure una ragazza, Renato gli propose di portare la sua fidanzata, cioè io. Ovviamente facevamo una comparsata, però con un cachet da far girare la testa: 15 mila lire ciascuno al giorno! E chi l’aveva mai visti tanti soldi insieme? Si lavorava solo di notte a Caracalla, partecipammo alla favolosa scena in cui Anita Ekberg si lancia in un ballo sfrenato, dove compare anche un Adriano Celentano ancora del tutto sconosciuto».
Ma i suoi genitori erano contenti delle sue frequentazioni e delle sue scelte professionali?
«Assolutamente no. Mio padre faceva il ragioniere, era contrario, non voleva che facessi l’attrice; mi ripeteva: è un ambientaccio e poi che talento hai per fare questo mestiere? Voleva che mi prendessi un diploma e trovassi un lavoro, con stipendio e tredicesima assicurati. Per questo, mi aveva iscritto a un corso di segretaria d’azienda: lo frequentai per un periodo, mi annoiavo a morte e decisi di sterzare».
Una sterzata radicale, ma fortunata, che negli anni la porterà a lavorare con famosi registi: al cinema da Gillo Pontecorvo a Marco Bellocchio, da Luigi Comencini a Luciano Salce; e a teatro debutta con Luigi Squarzina addirittura da protagonista nella parte di Artemisia Gentileschi.
«Una responsabilità immensa. Il grande regista mi ripeteva categorico: quando reciti, devi pensare a quello che dici. Fu allora che compresi di aver intrapreso una strada non facile, in un mestiere serio».
La svolta mediatica avviene in tv, ovviamente, con lo sceneggiato di Sandro Bolchi i «Promessi sposi», nel ruolo di Lucia Mondella al fianco di Nino Castelnuovo in quello di Renzo Tramaglino.
«Non pensavo mai che sarei stata scelta, non ero preparata a quella popolarità che mi cambiò la vita. Quando me lo proposero non ero per niente convinta, non mi sentivo adatta al ruolo manzoniano. Ero un’anticonformista e oltretutto in quel periodo stavo vivendo un momento di totale esaltazione. Recitavo al Sistina nella commedia musicale “Ciao Rudy” in un cast eccezionale, a cominciare da Marcello Mastroianni: io impersonavo un’ammiratrice pazza di Rodolfo Valentino».
Era una fan pazza anche di Mastroianni?
«E come non esserlo, era bellissimo! Però Marcello era molto riservato, niente a che vedere con il latin lover. Inoltre aveva una sua fragilità interiore. Ricordo che una sera sedeva in platea al Sistina Sophia Loren e lui era talmente nervoso, in apprensione per quella presenza, che durante un suo monologo ruppe col pugno uno specchio. Evidentemente era andato fuori di testa».
I rapporti con gli altri protagonisti del cast?
«Ottimi. Il mio camerino era vicino a quello dell’allora giovanissima Raffaella Carrà, un portento, e di Paola Borboni, che mi ha insegnato tanto: era divertentissima e fu proprio Paola a farmi accettare la proposta di Bolchi».
In che modo?
«Una sera, durante una pausa dello spettacolo, mi intrufolo nel suo camerino, dove era sempre nuda. Le chiedo consiglio e lei si toglie una catenina dal collo, mi porge l’immagine sacra e mi impone perentoria: “Bacia la Madonna, hai una palla di fuoco tra le mani, giocatela bene!”. E così fu...».
È stato difficile, per lei, passare dall’ambiente della pop art al romanzo classico?
«Bolchi aveva un’idea precisa: voleva una Lucia che avesse la forza, con la sua fede, di convertire l’Innominato, che però era impersonato dal mitico Salvo Randone, il più grande attore dell’epoca, di cui avevo soggezione. In una scena, dovevo essere da sola con lui e dovevo dimostrarmi molto dura nei suoi confronti... più volte ripetiamo la prova, ma non riuscivo, non avevo la sfrontatezza e il coraggio necessari per affrontarlo... e Randone, a un certo punto, abbandona il set molto seccato».
Scena archiviata?
«Macché! Il regista non si arrende e, furbescamente, me la fa girare da sola: parlando davanti a un muro, fingevo di rivolgermi all’Innominato».
A un’anticonformista, come è venuto in mente di scrivere una canzone, «La giacca rotta», che nel 1962 ha pure vinto lo Zecchino d’oro?
«Sono cresciuta per ben 17 anni come figlia unica, ma poi mia madre, che era già piuttosto matura, decise di rimanere nuovamente incinta ed è arrivato un fratellino: ne ero felicissima, più che una sorella maggiore ero una sorta di vice-mamma e gli cantavo tante canzoncine... tra queste, pensai di inviarne una al concorso del festival di musica per bambini e arrivò prima! In gergo sono un compositore melodista, compongo cantando o fischiando, poi mi faccio aiutare da un vero musicista per scrivere lo spartito. Quella volta francamente non mi aspettavo il successo: venne interpretata dal bravo Raymond Debono».
Però, a proposito di musica, un’anticonformista come lei nel 1969 si è addormentata al concerto di Bob Dylan sull’Isola di Wight. Com’è stato possibile?
«Un’avventura. Mi ero unita a un gruppo di amici, tutti italiani, ed eravamo riusciti ad accedere al concerto senza pagare il biglietto. All’inizio ci avevano sistemati dietro al palco, poi non so per quale motivo ci spostano in prima fila. Vicino a me sedevano Jane Fonda, John Lennon, Yoko Ono... roba da perdere la testa... Anche perché giravano delle “canne” che sembravano cannoni! Accetto di fare un tiro e, invece di eccitarmi, cado in un sonno profondo. Mi sono risvegliata agli applausi finali».
Ha compiuto di recente 83 anni ed è di nuovo a teatro, in tournée, con la messinscena di «Ho amato tutto», titolo ripreso da una canzone della cantante Tosca, dove interpreta la storia di un personaggio particolare: Donna Paola Menesini Brunelli.
«Lo spettacolo è dedicato a lei, scomparsa quattro anni fa. L’ho conosciuta in Salento, mi diede un passaggio in auto e siamo subito diventate amiche. È nata negli anni Trenta ed è stata una donna eccezionale che, pur provenendo da una nobile famiglia, se n’è infischiata di tutto, ha amato davvero tutto, a cominciare dalla sua libertà: si innamora di un giovane e lo sposa. Dal nobile castello dove abita, va a vivere in un piccolo appartamento e scorrazza col marito in lambretta. Pur essendo laureata in chimica farmaceutica, preferisce dedicarsi alla famiglia e mette al mondo cinque figli. Un’autentica ribelle... come me».
Sul palcoscenico lei viene diretta da sua figlia Evita Ciri, che firma il testo e la regia dello spettacolo: una convivenza pacifica?
«Evita è molto esigente e parecchio severa. Durante le prove, quando mi interrompeva categorica dicendo fai così, fai colà, non gliele ho mandate a dire. Ma alla fine lei è la regista, io l’attrice e non posso fare a meno delle sue indicazioni e frequenti reprimende. Alla mia età devo stare attenta a non commettere errori... ne ho commessi tanti per arroganza giovanile e posso assicurarle che li ho pagati tutti».