Corriere della Sera, 2 settembre 2024
Intervista alla sorella di Moussa Sangaré
«Ho avuto paura di morire anche io. Mio fratello ha tentato di uccidermi. Quello che ha fatto a Sharon poteva succedere a me. Ne sono convinta». Awa, sorella di Moussa Sangare, insieme col suo avvocato Stefano Comi, racconta gli anni di violenze che lei e la madre hanno dovuto subire da parte del fratello, 30 anni non ancora compiuti, ora in stato di fermo e in carcere dopo aver confessato il delitto di Sharon. «È stata un’escalation – dice la 24enne, studentessa di Ingegneria a Bergamo —. Io e mia madre Kadiatou abbiamo fatto di tutto per aiutarlo. Non volevamo credere a quello che ha confessato. Con mamma siamo scoppiate in lacrime. Forse però se ci avessero ascoltate Sharon sarebbe ancora viva. Il nostro pensiero va a lei e alla sua famiglia».
Awa, voi avevate segnalato la violenza di Moussa...
«In ben tre denunce. La prima nel 2023, l’ultima a maggio. Danneggiamenti, violenza domestica, maltrattamenti. Eravamo in pericolo. Nessuno si è mosso. Sia io sia il mio avvocato abbiamo scritto al sindaco, agli assistenti sociali. I segnali c’erano tutti. Volevamo aiutarlo a liberarsi dalla dipendenza. Ci abbiamo provato: hanno detto che doveva essere lui a presentarsi volontariamente. Non lo ha fatto».
Quando è cambiato?
«Dal suo ritorno dall’estero. Era andato in America e in Inghilterra, voleva fare il rapper, ha lavorato come cameriere. Noi siamo sempre stati a Suisio, io e Moussa siamo nati qui, abbiamo frequentato le scuole in paese. I miei genitori sono originari del Mali, la casa è nostra. Mamma lavorava come cuoca nella mensa della scuola, papà è morto quando eravamo piccoli. Quando è tornato dall’estero, nel 2019, Moussa ci ha detto che aveva fatto uso di droghe sintetiche. Non era più lui».
Era violento?
«Per qualche anno abbiamo tentato di contenerlo. Nel 2023, ad aprile, mia mamma ha avuto un ictus. La situazione è degenerata: quella notte ha tentato di buttare giù la porta. Voleva i soldi. Tre mesi dopo ha aperto il gas, incendiando la cucina».
Poi il secondo episodio...
«Era novembre. Mi ha minacciato con parole pesanti. Mi ha detto “Ti ammazzo”, mi ha gettato oggetti addosso. Abbiamo chiesto aiuto ai servizi sociali e al sindaco. Siamo state lasciate sole».
Avevate paura?
«Sempre. Lui urlava, parlava da solo. Delirava».
E i maltrattamenti...
«Il 9 maggio scorso. Mi ha puntato contro un coltello, prendendomi alle spalle. Ero in cucina, ascoltavo musica con le cuffie. È scattato il codice rosso e il suo allontanamento».
Che non è arrivato...
«Era sparito. Non abbiamo più saputo nulla. Poi abbiamo scoperto che aveva occupato la casa al piano terra».
Ma non si è avvicinato...
«No. Ma avevamo paura. Temevamo potesse farci altro male come in passato».
Aveva raccontato a qualcuno tutto ciò?
«A una vicina e a mia zia, che mi ha anche ospitato. Una di loro era andata dal sindaco e dagli assistenti sociali. Tutti sapevano».
Nessuno ha controllato?
«Ripeto: sapevano anche dell’occupazione. Non è stato fatto nulla. Forse un accertamento sanitario andava richiesto. Nessuno si è presentato, nessuno ha controllato».
Avete sospettato di lui in questo mese?
«No, la bici era sotto il telo. Non abbiamo visto nulla. Moussa viveva di notte, di giorno dormiva. Non lavorava, era disoccupato».
Come avete saputo che era stato lui a uccidere Sharon?
«Il giorno prima del suo fermo, giovedì pomeriggio, mi hanno portato in caserma per raccontare le violenze subite. Non sapevo che fosse dai carabinieri. Poi l’avvocato ci ha avvisate: ci è crollato il mondo addosso».
Avete intenzione di andarlo a trovare in carcere?
«Ora siamo distrutte. E ci stringiamo alla famiglia di Sharon e al loro dolore. Vedremo come comportarci».