Corriere della Sera, 2 settembre 2024
A diciassette anni uccide i genitori e il fratellino
Paderno Dugnano (Milano) - Li ha uccisi uno dopo l’altro. Prima Lorenzo, 12 anni compiuti il 17 agosto, che dormiva nel letto a fianco al suo. Massacrato con decine di coltellate. Poi la madre Daniela A., 48 anni. Lei sente i rumori dalla camera a fianco, si alza nel buio, attraversa il piccolo corridoio e come entra in stanza viene colpita senza scampo. Infine papà Fabio C., 51 anni festeggiati proprio sabato sera. Sente le urla e si precipita per capire cosa stia succedendo. Si trova davanti suo figlio già sporco di sangue e il coltello in pugno: è alto un metro e 85, ma non ha nemmeno il tempo di scappare. Viene ucciso sulla soglia della porta.
Poi Riccardo chiama il 112. Sono le due di notte. Dice che papà ha ammazzato suo fratello e la mamma. Racconta che lui ha preso il coltello da terra e l’ha colpito, che l’ha ucciso. L’operatore del 112 lo tiene al telefono, gli dice di uscire subito di casa per aspettare i soccorsi in strada. I carabinieri di Paderno Dugnano, una manciata di chilometri a nord di Milano, lo trovano davanti al cancelletto del civico 33 di via Anzio. Riccardo è in piedi, pieno di sangue. In mano ha ancora il coltello. Cinquanta metri più in fondo, sulla destra, la villetta del massacro quasi non si vede.
Muoiono tutti nella cameretta di due figli adolescenti uguale a migliaia di altre. In una famiglia «da Mulino bianco». Una villetta con i mattoni anticati, la siepe nel giardino, il verde curato. Una casa che aveva tirato su proprio l’impresa di papà Fabio e della sua famiglia, storici costruttori della Brianza. Avevano deciso di vivere tutti insieme, in tre ville, le più belle, una a fianco all’altra: i nonni e i due fratelli con le loro famiglie. La sera prima, giorno del compleanno di papà Fabio, erano insieme con zii e nonni. «Una festa come sempre, una famiglia unita».
Riccardo, che compirà 18 anni tra poche settimane, era un po’ taciturno ma non più del solito, senza dare nessun segnale di malessere. Come non ne aveva mai dati prima di compiere la strage. Nessuna segnalazione ai servizi sociali, nessun rilievo di professori, amici, familiari. E soprattutto nessun brutto giro. Ma la vita di un adolescente drammaticamente come tanti: il debito in matematica, le vacanze insieme agli amici. Unica anomalia – visti i tempi – una certa timidezza verso l’uso dei social. «Un bravo ragazzo, non può essere mica stato lui», ripetono i vicini che domenica mattina riempiono il parchetto davanti a casa. Riccardo è già in caserma. «Catatonico», parla poco. Con i carabinieri prova a ricostruire: «Papà li ha uccisi, poi ha lasciato il coltello sul pavimento. Io l’ho preso e l’ho colpito». Dice di non essere stato aggredito e sul corpo non ha segni di difesa.
La sua versione si spegne quando è ormai giorno. I carabinieri del Reparto operativo di Milano, guidati dal colonnello Antonio Coppola, lavorano per ore su allarmi e telecamere per escludere, oltre ogni dubbio, la presenza di estranei nella villetta. Ma è un’ipotesi a cui nessuno crede veramente. Alle due di pomeriggio il 17enne ormai formalmente indagato per omicidio si confida con il legale d’ufficio e crolla: «Sono stato io». Racconta la sequenza dell’orrore, dice di aver colpito per primo il fratello Lorenzo, poi i genitori. «Non c’è un perché. Mi sentivo un corpo estraneo in famiglia, con gli amici. Ero oppresso, mi sentivo solo in mezzo agli altri».
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Paderno Dugnano (Milano) In mano ha la lama di un grosso coltello che gronda sangue. Lo lascia cadere sul marciapiedi davanti al cancello del vialetto quando vede i carabinieri. Riccardo è in mutande, a torso nudo, addosso ha il sangue di papà Fabio, della mamma Daniela, di suo fratello Lorenzo, 12 anni. È a lui che riserva le prime coltellate, nel sonno, mentre dorme. Sono colpi feroci, tanti. Gli inquirenti parlano di decine di lesioni. «Non c’è un vero motivo per cui l’ho ucciso. Mi sentivo un corpo estraneo nella mia famiglia. Oppresso. Ho pensato che uccidendoli tutti mi sarei liberato da questo disagio». Ma non è stato così. «Me ne sono accorto un minuto dopo: ho capito che non era uccidendoli che mi sarei liberato».
Per più di dodici ore Riccardo C., – 17 anni, la quinta al liceo scientifico Gadda di Paderno che sarebbe iniziata a giorni, la passione per la pallavolo, un ragazzo come tanti – prova a far reggere una bugia che non sta in piedi. Perché è davvero difficile credere, come ha raccontato al 112, che papà Fabio abbia ucciso mamma e figlio e poi lui abbia raccolto il coltello per colpirlo senza però avere addosso neppure un graffio, un segno di lotta contro un uomo alto e dal fisico atletico.
Quello davanti al pm dei minori Sabrina Ditaranto è un monologo inframmezzato dalle lacrime: «Non è successo niente di particolare sabato sera. Ma ci pensavo da un po’, era una cosa che covavo», racconta durante le sue spontanee dichiarazioni. Sono parole difficili da ascoltare. Riccardo dice di essersi alzato mentre gli altri dormivano per andare in cucina a prendere un «coltello da carne» e di avere colpito per primo («ma senza una ragione precisa») il fratellino. Quando parla delle motivazioni del massacro, singhiozza parole che non chiariscono cosa sia questo «disagio» che ha armato il suo piano di morte. «Non so davvero come spiegarlo. Mi sento solo anche in mezzo agli altri». A casa come con gli amici, che non gli mancavano: «Non avevo un vero dialogo con nessuno. Era come se nessuno mi comprendesse».
Quando alle 17.30 esce dalla caserma di Paderno, mentre la macchina dei carabinieri sfreccia via, lui si copre il viso con la mano destra. Tra le dita sembra stringere un fazzoletto di carta. Nei prossimi giorni gli psicologi del Beccaria, dove è in arresto per omicidio plurimo, lo aiuteranno a scavare dentro di sé. A dare una ragione – se mai ce ne possa essere una – per spiegare questo massacro arrivato nei giorni in cui tutti si interrogavano per la fine di Sharon Verzeni, ammazzata «solo per il bisogno di uccidere». Fuori dalla villetta di via Anzio c’è chi prova a lanciarsi in parallelismi arditi: «Questi ragazzi non conoscono il valore della vita. Non sappiamo insegnargli più cos’è il bene e cosa il male», sentenzia la mamma di un ragazzino che avrà l’età del povero Lorenzo. «È davvero troppo presto per capire», riflette il difensore del 17enne, Chiara Roveda.
E sono parole sovrapponibili a quelle degli investigatori. A chi lo interroga sembra un ragazzo «intelligente», forse più della media. La sua appare come una confessione «autentica». Ma è un racconto vuoto, desolante davanti a tanto orrore. Forse Riccardo non ha gli strumenti per spiegare cosa sia davvero quel «disagio interiore». Non parla di bullismo, di sessualità, di problemi con le droghe. È come se tutto fosse racchiuso in quella sensazione che tanti adolescenti vivono ogni giorno: la difficoltà di sentirsi adulti, il disagio di trovare una propria strada.
Ma è tutto troppo poco, infinitesimo di fronte al massacro di un’intera famiglia.